Memoria, Biodiversità e Migrazione. La mostra di Sergey Kishchenko a cura di Silvia Burini e Giuseppe Barbieri si basa su questi 3 grandi capisaldi, diventando la prima esposizione frutto dell’interessante progetto Mapping Diaspora: arte russa in esilio ideato dal Centro Studi sulle Arti della Russia (CSAR) dell’Università Ca’ Foscari Venezia.
Qual è l’obiettivo? Il progetto, avviato nel febbraio scorso nasce proponendosi di diventare punto di raccolta privilegiato e spazio di analisi di tutti quei progetti artistici di chi ha deciso di lasciare la Russia a causa della guerra e delle proprie posizioni politiche. L’obiettivo e quello di disegnare una mappa inserendo ciò che è stato creato o è ancora in fase di elaborazione nei diversi campi dell’espressione artistica.
Questa è solo una delle infinite conseguenze che la guerra tra Russia e Ucraina ha creato, causando una delle migrazioni intellettuali più importanti del nostro tempo: centinaia di migliaia di persone, la più parte giovani, hanno abbandonato la Federazione Russa. Tra loro centinaia di artisti, di ogni ambito espressivo (dall’architettura alla musica, dal cinema alle arti visive).
Mapping Diaspora: arte russa in esilio non è solo una rete di connessione tra questi artisti ma si articola in varie sezioni, la prima è Arte, e presenta opere e progetti realizzati da artisti russi emigrati utilizzando diversi linguaggi artistici, Testi, raccoglie testi inediti o già pubblicati, di vari specialisti (ricercatori, curatori, giornalisti, scrittori) che analizzino il fenomeno migratorio da diversi punti di vista. Nella sezione Dialoghi, invece viene proposto un elenco di domande fisse, a cui i partecipanti rispondono diffusamente o in modo schematico, consentendo così di confrontare tra loro le risposte e Cronaca, fornisce un resoconto sintetico degli eventi relativi all’arte russa da febbraio 2022 a oggi. Infine, Grants costituita da informazioni aggiornate su borse di studio e altre opportunità in campo artistico e accademico in diversi Paesi.
Questo programma si amplia organizzando anche attività espositive non solo a Venezia. Sergey Kishchenko: Hortus Conclusus. Memoria, biodiversità , migrazione, visitabile fino al 14 ottobre 2023, è la prima di queste mostre e anche la prima personale in Italia di Sergey Kishchenko (Stavropol’, 1975). Riunisce un gran numero di lavori, sequenze avviate negli ultimi dieci anni che hanno visto un’accelerazione dopo la decisione dell’artista di abbandonare la Russia e il suo arrivo in Italia dove ha visto riconosciuto il suo status di rifugiato politico.
Il fulcro di questi lavori è l’hortus conclusus, ovvero l’emblema da sempre dell’intima connessione tra uomo e natura. Il suo perimetro delimitava un luogo di protezione dai drammi della storia e spazio di manifestazione di un ordine superiore. Oggi si parla sempre di più di un mondo divenuto globale, rinchiuso e diviso tra pareti insormontabili, che disprezza la varietà della natura, vegetale e animale, standardizza la diversità , costringe a dinamiche di migrazione per fuggire da guerre, carestie, futuri senza speranze. Un mondo rinchiuso che sempre di più rivela le fragilità della vita umana, le incertezze sul futuro della biodiversità , la crescente necessità di una protezione anche attraverso la condivisione della ricerca scientifica.
Sergey Kishchenko sa declinare queste dinamiche generali del nostro tempo anche su un registro personale, intimo, mostrando la sua capacità di fondere insieme, in raffinate strategie di conservazione della memoria, la grande e le piccole storie. La maggior parte delle opere scaturiscono da una originale riflessione sulla leggendaria vicenda dell’agronomo, botanico e genetista vegetale russo, Nikolaj Ivanovič Vavilov (1887-1943), di recente tornato all’attenzione di pubblico e critica grazie al volume di Peter Pringle, che dedicò tutta la sua vita a cercare di trovare una soluzione al problema della fame in Russia e nel resto del mondo, secondo criteri di giustizia, uguaglianza e futuro. Come ha notato Riccardo Caldura, Kishchenko «ripercorre le vicende dello scienziato, generando un affascinante, quanto rigoroso, percorso espositivo fra immagini, videoproiezioni, installazioni, richiamando non solo gli aspetti tragici della vicenda di Vavilov, da scienziato di livello assoluto a nemico del regime sotto Stalin, ma accennando anche alla più complessa tematica delle migrazioni provocate dalla penuria alimentare e dalle guerre. Nei nostri giorni, qui in terra, è la stessa esistenza dell’Hortus conclusus, immagine del paradiso, ad essere minacciata».
Nella prima sezione della mostra sono presenti opere che appartengono a due serie: nelle fotografie di Recipe book-Erbari di piante selvatiche (2014-2018) l’artista associa a pagine scientifiche di erbari autentiche ricette di sopravvivenza con le piante selvatiche, fornite da detenuti o composte durante l’assedio di Leningrado, con istruzioni su come raccogliere e cucinare le piante selvatiche, usare la sansa, la farina e la colla di caseina come cibo. La serie Pane quotidiano (2014) è invece dedicata al salvataggio della collezione genetica raccolta da Nikolaj Vavilov (alcuni suoi collaboratori preferirono morire di fame, durante l’assedio di Leningrado, piuttosto che intaccarla).
La seconda tranche del percorso è costituita da 8 pezzi della serie Macchie, buchi e fili (2019, tecnica mista), che allude alle sezioni del cervello di Lenin. In URSS era infatti stato fondato l’Institut Mozga [Istituto di ricerca del cervello] per studiare quello del defunto e geniale leader. Gli scienziati internazionali che hanno studiato i dati disponibili sono spesso giunti alla conclusione che il cervello di Lenin mostrava caratteristiche tipiche dei malati di mente. Ma la serie riguarda e rappresenta soprattutto la soggettività della storia, evidenziando le macchie bianche e i buchi neri della conoscenza storica, rivelando fili invisibili che collegano eventi completamente estranei.
Nell’ultimo tratto della mostra le immagini vegetali sin qui metaforicamente rappresentate sono incorporate in un’installazione: si tratta di materassi appartenuti a profughi e migranti, che Kishchenko ha rinvenuto nell’area di Malamocco, dove l’artista ha trovato rifugio e residenza.
Due materassi sono collocati dietro lo schermo del video Bunker, sulle fortificazioni del Lido e di Pellestrina abbandonate dopo la Seconda Guerra Mondiale che esplicitamente ci invitano a riflettere sulla terribile e inevitabile vicinanza della guerra. Un altro materasso compare all’inizio del percorso, un’ epigrafe riassuntiva dell’intero percorso.
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