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Curata da Pierre Olivier Rollin con grande partecipazione e competenza, sostenuta dall’Italian Art Council della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, “Glory VI – Au temps où nous n’étions pas des hommes – quando non eravamo uomini“, più che una mostra deve essere considerata come una “stazione” del cammino iniziato da Pietro Fortuna, tra il 2007 e il 2010 a Glasgow, con il progetto Glory I – The Raft. Nell’introduzione di allora, si leggeva: «Glory sarà un viaggio attraverso i luoghi in cui le comunità condividono i loro rituali e la vita quotidiana attraverso l’istruzione, la religione etc. L’intenzione è quella di mettere in evidenza la presenza anonima di ogni singolo individuo, al di là dei suoi principi o dell’ideologia su cui ogni comunità si fonda. Immagini, foto, documenti troveranno una nuova forma di “coro anonimo”, come ultima testimonianza del presente di molti. Di “tutti”».
Questi contenuti non sono affatto mutati, hanno trovato, anzi, nello svolgersi, un naturale arricchimento e un’evoluzione, facendo in modo che il nostro incontro con le cose e le forme che ci troviamo dinanzi, sia al di fuori dell’assolutezza che ne verrebbe a fissare il significato una volta per tutte, e resti aperto a una sorta di stupore e meraviglia – quello del viaggio che notoriamente cancella le abitudini e gli automatismi nell’uso delle cose – predisponendoci all’ascolto che il nostro essere deve adottare, per incontrarle proprio nel loro “stare” nella condizione di provvisorio, sacro riposo, dinanzi a noi. Un ascolto che asseconda un “sentire”, simile alla “comunione”, che prescinde dal nostro apparato razionale.
La diagonale che Fortuna ha tracciato per disporre le sue opere, come era già avvenuto nella sua ultima mostra romana, del 2017, nell’ex Mattatoio di Roma, sollecita il visitatore a un percorso fuori dalla linearità di un segmento temporale che suggerisca un inizio e una fine, e lo piega dolcemente, invece, verso una curvatura che abbraccia più elementi simultaneamente.
Grazie alla costruzione di forme simili ad appenditoi, cavalletti, mensole e scaffali di cui, comunemente, sono dotati anche i nostri ambienti quotidiani, ciò che si offre al nostro occhio sotto una sponda familiare, serve invece a introdurci a multiple scoperte. La complessa articolazione di punti di vista, dove i piani verticali s’incrociano con quelli orizzontali, lascia, però, che il nostro sguardo penetri attraverso i vuoti che, con frequenza, si aprono oltre le linee rettilinee del ferro che li incornicia, determinando scorci continuamente inediti, che si presentano al minimo spostamento del nostro corpo.
Ci viene riproposto, in modo che possiamo sperimentarlo di persona, il meccanismo con cui, di fatto, i flash della memoria si sovrappongono, e intersecano le situazioni che incontriamo nella realtà del momento, mettendo a nudo l’identico processo che troviamo fissato, invece, nelle tavole fotografiche di Pietro Fortuna, con interventi a collage e disegno, o viceversa. Qui una grande parete ne contiene otto, che alludono a viaggi in diverse città del mondo, dalla Scozia alla Cina, al Messico e oltre, le cui dimensioni di prossimità e lontananza s’intrecciano in continuazione.
Se tuttavia i piani di queste sequenze si susseguissero con immagini o figure sempre nuove, tutto finirebbe per sfuggirci, correrebbe via. Troviamo, al contrario, oggetti e forme ricorrenti cui Fortuna si affida, come a un alfabeto personale, o come a una sua specifica iconografia. La mela, la pistola, le canne da pesca, i rotoli, la torcia, il fucile, le biglie, la campana non sono solo oggetti dello studio di Fortuna che compaiono come in un diario personale – “cose alla distanza di un braccio”, come lui ama definirle – ma direi anche “parole”, come nella “confusione” biblica, dove il termine “cosa” non esiste, ma esiste solo “parola”. “Dabar”- scrive Sergio Quinzio in Radici ebraiche del moderno – nell’ebraico posteriore è venuto a indicare la “cosa”, ma nell’ebraico biblico significa “parola”, quella parola, il “fiat” genesiaco, mediante il quale Dio crea il mondo.
“Cose” o “parole”, dunque, posate nella griglia della visione, in alto, in basso o a metà via, che scopriamo a poco a poco, perché spesso si sottraggono al nostro sguardo che vuole afferrarle, scivolando su piani inclinati, incurvandosi su se stesse, in un gioco fatto della complice seduzione di un ritrarsi e nascondersi appena le abbiamo intraviste. E le parole infatti si mischiano alle cose, le incontriamo per caso dove sono, quasi sempre dove non ce le aspetteremmo, ci costringono a torcere il collo, appoggiate su un sedile, a girare dall’altra parte, stampate su grandi fogli lasciati cadere a cavallo di una barra, in una condizione di provvisorietà e di riposo che toglie loro la spinta a essere ciò che in effetti sono nel linguaggio comune, utensili pronti all’uso che ne vogliamo fare, qui, invece, depotenziati o disinnescati, potremmo dire, come il fucile poggiato su un piano inclinato, tra i cataloghi dell’artista – LE SINGE SUR L’ARBRE – le scatole di pasticche e una piccola campana che chissà a cosa potrebbe richiamarci. E fra le teche ci sono i rotoli in Pvc trasparente, che contengono immagini che non vedremo, possiamo soltanto supporle, quelle di cui Fortuna ci ha detto: «Gli ideali, i sogni sono diventati immagini flebili. Come fogli di carta si sistemano uno sopra l’altro, sovrapponendosi sino a divenire un unico corpo uniforme. Questa forma trova la propria nicchia in uno spazio, si radica trovando un proprio luogo».
Una grande lastra di perspex verticale, giallo oro, espande la propria luce intorno, e le sei mele, collocate su una mensola in alto, assumono riflessi che le fanno sembrare di un bronzo, impreziosito da patine raffinate, mentre sono di banalissima plastica verde. Anche altrove il giallo di qualche superficie vibra richiamando la nostra attenzione, come la copertina gialla di un catalogo con la parola MOTH (falena) che pende da una struttura, suggerendo forse, alla nostra esplorazione, quella del volo notturno di questo insetto, richiamato qua e là dalla luce. Oltre al giallo ci sono superfici grigio azzurre del colore tipico di un cielo limpido, quando è visto da una zona in ombra, il resto per magia naturale lo fanno l’aria e il nostro movimento, che continua a porci interrogativi. E’ un invito a sederci, quello dei tavoli e delle panche da picnic? Forse, ma il convito è a metà tra l’esser pronto a riceverci con i calici schierati e il “non ancora” di altri, riversi su di un lato. Regardez les oiseaux du ciel: il ne sèment ni ne moissonnent, e il n’amassent rien dans des greniers.
Questo passo della Bibbia di Matteo, adagiato su una delle panche, ci trattiene dall’accomodarci, ma ci accompagna oltre ciò che stiamo vedendo. Nel suo spirito di affrancamento da ogni vincolo produttivo e da ogni accumulo di beni, potrebbe riassumere il senso dell’intera situazione. Poiché ogni cosa è già compiuta in sé, non ha bisogno di commenti, di chiose o d’interpretazioni logiche. Semplicemente, ma profondamente, va còlta nella sua Gloria.
Nell’Etica di Spinoza, un filosofo che Fortuna conosce molto bene, non ci può essere Gloria senza la modestia dell’Humanitas, che porta gli uomini a convivere in un’unità di amicizia nell’anelito allo scopo più alto, quello del Sommo Bene, ovvero della Gloria di Dio. Come nelle Scritture.
Ed è qui, che si coglie la sintonia di questa fase del percorso dell’artista – benché con tonalità forse più mistiche e certamente diverse – con le finalità di cui è portatore il BPS22 – Bâtiment Provincial Solvay, n°22 du boulevard Solvay – diretto da Pierre Olivier Rollin, sin dal 2000, con lo scopo di edificare qualcosa che va a beneficio di tutti. L’accesso alla cultura per lui, che ha conferito al Museo il ruolo essenziale di controbilanciare il disagio creato dall’imponente riconversione del sistema industriale della città – una città nata dallo sfruttamento dei giacimenti di carbone, la tragedia di Marcinelle avvenne proprio in un sobborgo di Charleroi – rappresenta una forma esemplare di “approfondimento della democrazia”, un modo, per la comunità cittadina, di confrontarsi in maniera critica con il mondo in cui vive.
Nel tempo in cui non eravamo uomini (Au temps où nous n’étions pas des hommes), il sottotitolo che Pietro Fortuna ha assegnato a Glory VI – si riferisce a quell’epoca in cui, secondo Platone, l’anima umana, prima di saper dare un nome alle cose, ha potuto contemplare il Vero Essere. Ed è ciò che Pietro Fortuna ci spinge a tentare di ritrovare con un atto – oggi che in questo mondo ogni cosa ha un prezzo – più che mai rivoluzionario, riconsegnando alla sacralità del “dono” e alla sua eccedenza, l’atto totalmente “gratuito” dell’espressione artistica.
Le singole esistenze – ha scritto Pietro Fortuna – si rimettono a un vincolo comune che è la relazione originaria di ogni essere (…) non c’è distanza che può annullare la condizione di essere individui inseparabili. Non c’è solitudine che può cancellare il nostro esistere con gli altri, un legame che anche la morte non scioglie, mettendo in comune lo stesso distacco.
Nella serata introduttiva, ringraziando l’amico direttore, Pierre Olivier Rollin, Pietro Fortuna ha indirizzato a lui, e al pubblico intervenuto, queste parole: «Se domani ritornerete qui, non troverete le stesse cose. Sembra impossibile, ma è così….e vi garantisco che nessuno questa notte verrà a sostituirle con altre. E allora? E’ molto semplice. Noi siamo abituati a vedere le cose, anzi, a riconoscerle, perché da tempi remoti abbiamo dato un nome a tutti gli oggetti o fenomeni che si sono manifestati ai nostri sensi, abbiamo dato voce a questi oggetti, non c’è nulla che non abbia la sua parola e se dovessimo avere dei dubbi, sono sempre le parole a salvarci…». E ancora: «Non c’è distanza, che il linguaggio amministra per individuare, distinguere e dunque separare, ma rispecchiamento, cioè il nostro sguardo è come preso in un atto d’inflessione, una curvatura, un vedersi vedendo».
Su una parete del Museo compaiono anche cinque disegni gemelli, a riprova che nonostante l’apparente identità, l’uno non può essere completamente uguale all’altro, perché come asseriva Eraclito non ci si bagna due volte nello stesso fiume, ma ogni atto, anche ripetuto più volte, conserverà in sé sempre qualcosa di unico.
L’ombra, che in un artista come De Chirico, si proietta dentro il nostro stesso guardare, qui è una postura inclinata, quella della terra su cui ci troviamo, che delinea la curvatura della nostra esistenza, un’inclinazione, un bilico, su cui possiamo solo affacciarci prima che tutto nuovamente cambi. Ed è forse questo il motivo per cui l’uomo, attraverso le verticali e le orizzontali, si è dato al tentativo d’inchiodare il nostro vivere transeunte e precario allo spazio, a una misura.
Nulla in questo contesto è stato lasciato al caso. Questi oggetti sono le parole del vocabolario di Pietro Fortuna, sistemate nelle griglie di uno sguardo che pone l’attraversamento come condizione Ciascuna di esse, tuttavia, tiene a conservare il proprio segreto.