Percorrendo un sentiero nel bosco, dopo aver parcheggiato la macchina in località Piteglio e aver camminato per circa 45 minuti si raggiunge Oasi Dynamo, ora sede di Oasy Contemporary Art, un progetto nuovo che – sotto la direzione artistica di Emanuele Montibeller – protegge la natura attraverso la cultura del rispetto e della conoscenza.
Dove la fruizione dell’oasi naturalistica non è proibita, al contrario è vissuta, Massimo Vitali è stato invitato a inaugurare lo spazio recuperato da un’immensa ex stalla per le mucche – insieme a David Svensson, con l’installazione Home of the world (ne avevamo parlato qui) – un percorso esperienziale ha come protagonisti gli uomini ed il territorio, in un dialogo nel quale la presenza umana è misura stessa del paesaggio.
La Grande Oasi. The way we live, now – questo è il titolo della mostra curata da Giovanna Calvenzi e visitabile fino al 5 novembre – come una madeleine proustiana, mi ha riportato alla mente La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino e The Way We Live Now di Anthony Trollope. Ne ho parlato con Massimo Vitali, prendendolo come spunto per approfondire cosa resta dell’esperienza di Oasy Contemporary Art.
Il film di Sorrentino si apre con una citazione che funge da chiave di lettura: «Viaggiare, è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco la sua forza. Va dalla vita alla morte». Lei in mostra fa dialogare le sue prime foto di spiagge degli anni Novanta con quelle realizzate oggi nell’Oasy Contemporary Art. Che cosa significa per lei il viaggio?
«Al contrario di quello che può sembrare, non sono un grande viaggiatore. E non sono un fautore del viaggio per sé. Facendo il fotografo, in qualche modo devo venir meno alle mie convinzioni e lasciarmi trasportare da quella serie di connessioni che – potrebbero essere – ma non sono sempre un viaggio. In effetti, per me il viaggio consiste nell’immedesimarmi nelle vite delle persone che incontro e che osservo con un atteggiamento quasi voyeuristico o, come nel caso delle ultime foto realizzate nell’Oasi Dynamo, nelle vite degli alberi».
Il romanzo di Trollope invece, pubblicato nel 1985 quando era appena rientrato da un lungo viaggio all’estero, era un rimprovero all’avidità e alla disonestà che pervadevano la vita commerciale, politica, morale e intellettuale dei primi anni Settanta del XIX secolo. Le fotografie esposte che cosa raccontano? In che modo viviamo, oggi?
«Ho sempre sostenuto che non è compito del fotografo arrivare a delle conclusioni, ma il compito è quello di osservare quello che tra qualche decennio potrà portare a uno studio definitivo sulla realtà di oggi. Questa, ad esempio, è una cosa che già noto osservando le foto fatte agli inizi della mia serie di spiagge negli anni ’90. Penso che l’osservatore, trovandosi di fronte a delle fotografie che mostrano come la società ha vissuto in passato, possa arrivare a capire come vive oggi. Le ultime fotografie realizzate oggi nell’Oasi Dynamo esplorano invece il tema “caldo” del rapporto tra l’uomo e la natura.».
Per il lavoro all’interno dell’Oasi ha rinunciato alle riprese dall’alto di un cavalletto di cinque metri lasciandosi coinvolgere – e coinvolgendo chi osserva – in un più diretto rapporto con l’uomo e la natura. Quali testimonianze porta con sé di questa esperienza?
«Sul mio modo di fotografare si sono spesso fatte delle dichiarazioni assolute ad esempio che “io fotografo sempre da un’altezza di 5 metri” oppure che “Uso sempre un trabattello”. In effetti, va sempre preso cum grano salis. A volte è assolutamente importante essere ad una giusta altezza. A volte riesco a “vedere” anche lontano ma da altezze diverse. A volte, più raramente, posso fotografare dall’altezza del mio occhio. Nelle foto dell’Oasi i soggetti si addicevano a quest’ultima possibilità. Ho stabilito un rapporto più intimo con i miei soggetti, che a loro volta erano in un rapporto intimo con la natura. Non avrei mai creduto di potermi entusiasmare per un territorio che non ho mai sentito “mio”, ma che potrebbe diventarlo».
Che valore assumono le contemplazioni e le attese che contraddistinguono la sua indagine una volta immerse nella natura? Qual’è la forza della natura oggi?
«Normalmente, avendo a che fare con grandi gruppi di persone che devono ordinarsi, sono costretto a delle attese, ma nel caso delle foto realizzate per Oasi Dynamo ho dovuto lavorare in una maniera diversa. In effetti una volta individuato il punto dove scattare ho potuto dirigere facilmente i miei attori».
Restituendo pezzi di storia e di vita – dalle folle di bagnanti ai silenzi primaverili in Toscana, passando per un picnic parigino e momento di svago sul torrente Lima – immobili in un eterno presente e avvolti dal colore naturalistico e dalla sensibilità tonale, in che modo l’uomo sta nel territorio e come la presenza umana è misura stessa del paesaggio?
«Gli alberi che ho fotografato segnano il paesaggio con una loro presenza speciale e non banale. Sono dei cartelli indicatori a cui si avvicinano gli abitanti e i lavoratori dell’Oasi che ho messo in posa accanto a loro. Questo per me significa una nuova tensione tra l’uomo e la natura, che dobbiamo difendere».
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