Che la pittura, in particolare quella figurativa, non solo sopravviva ma si sviluppi in forme sempre più attuali, è quanto si intende dimostrare con la mostra allestita alla Galleria Civica di Trento. L’esposizione comprende una selezione di dipinti di Giulia Andreani, Elisa Anfuso, Annalisa Avancini, Romina Bassu, Thomas Braida, Manuele Cerutti, Vania Comoretti, Patrizio Di Massimo, Fulvio Di Piazza, Andrea Fontanari, Giulio Frigo, Oscar Giaconia, Iva Lulashi e Margherita Manzelli. Una mostra, a mio avviso, che ha anche il merito di evidenziare non solo l’intelligente e perspicace vitalità del mezzo pittorico, ma anche l’eccellenza di alcuni pittori italiani, su cui dalle nostre parti si abbatte spesso la scure di una colpevole esterofilia. Con detrattori che liquidano sbrigativamente la questione adducendo, a riprova dei loro ragionamenti, che i pittori contemporanei italiani sono pressoché ignoti all’estero: vero in molti casi, forse la maggior parte, ma imputarne la causa alle scarse qualità intrinseche della loro ricerca è dolosamente ingeneroso e intellettualmente superficiale.
In attesa che l’esposizione “Ciò che vedo. La nuova figurazione in Italia” riapra i battenti, appena l’emergenza sanitaria in atto lo consentirà, ne abbiamo intervistato i due curatori, Alfredo Cramerotti (curatore residente nel Galles del Nord, dove dirige la Mostyn contemporary art gallery) e Margherita de Pilati (responsabile della Galleria Civica di Trento).
Dott. Cramerotti, lei nel catalogo della mostra fa appello all’ormai popolare concetto di resilienza per spiegare la capacità della pittura, in particolare quella figurativa, non solo di sopravvivere, ma di svilupparsi nel corso dei secoli in forme sempre più attuali. Ci può spiegare questo concetto più nel dettaglio?
«La resilienza della pittura non è semplicemente un continuare nonostante tutto, dopo che fotografia, film e video, e in ultimo i media digitali hanno dichiarato “finita” questa forma di cultura umana; è proprio una manifestazione dell’evolversi stesso della cultura visiva, che si adatta, plasma e riconfigura il divenire umano attraverso pensieri, comportamenti e azioni visuali. Il potere agente della pittura non dipende né dalle capacità dell’artista né dall’esperienza del pubblico; piuttosto è il responso allo sviluppo “autonomo” dei codici estetici sviluppati in una particolare società. In altre parole, quello che apprezziamo oggi in un dipinto non dipende da noi né dal dipinto, ma dall’assorbimento di certe estetiche negli aspetti di vita quotidiana che ritroviamo in questo prodotto della cultura umana».
Perché il potere della pittura, in un contesto iper-tecnologico come l’attuale, sembra rimanere seducente e inalterato?
«Mi riferisco alla pittura non solo in termini tecnici o di pratica materiale, ma più di tutto come approccio mentale e psicologico alla visualizzazione della nostra esistenza. Pensiamo all’animazione digitale che si ispira alla pittura realistica, all’estetica dei videogiochi che prende spunto dagli scenari post-apocalittici dei dipinti religiosi, e a come social media come Instagram promuovono (e si basano su) un senso della composizione pittorica in ogni post, perché questo venga condiviso e ricircoli. In questo senso la pittura si sviluppa in forme sempre più attuali, contingenti la nostra situazione socioculturale, e si manifesta in forme e media anche lontani dalla sua tradizione».
In che modo la pittura riesce a rinnovarsi continuamente?
«Ho accennato sopra ad alcuni esempi che riguardano il “come”. È un modello, se vogliamo incompleto e anche imperfetto, ma nondimeno importante, per il modo in cui pensiero e azione sono interconnessi, quasi un unico gesto che include allo stesso tempo tecnica e speculazione intellettuale, passaggio e singolarità, evento e testimonianza».
Perché, a suo avviso, molti critici e curatori nostrani hanno problemi con la pittura contemporanea, giudicandola anacronistica, passatista oppure meramente “arte commerciale”?
«Mi sorprende che in Italia sia questa la posizione di molti curatori; forse questo pensiero/atteggiamento non è poi così generalizzato? Se lo fosse, presumo abbia a che fare con un modello storico di concezione dell’arte lineare, come un continuum, una progressione all’infinito che parte da un’origine e si sviluppa nel tempo. In realtà, sappiamo bene che la concezione del tempo stesso, aldilà di quello storico-artistico, non è così. È più un movimento fluido di particelle e atomi che si espandono e contraggono in multiple direzioni, e non “progrediscono” affatto, ma continuano a cambiare stato e direzione in ogni momento. Ecco, prendendo la risposta dalla fisica quantistica, l’arte si materializza proprio in questo. Quindi non capisco perché una forma artistica come la pittura contemporanea dovrebbe essere anacronistico o passatista».
Qual è la considerazione dei critici e curatori all’estero nei confronti della pittura contemporanea?
«La considerano estremamente attuale, seducente, importante, rilevante, impegnata, accessibile, critica, versatile e persino trendy e “giovane”. Giusto un esempio: la Whitechapel Gallery a Londra ha di recente aperto “Radical Figures: Painting in the New Millennium” (fino al 10 maggio 2020 ufficialmente, salvo proroghe per via dell’emergenza sanitaria), una bella mostra che apre su una serie di pratiche pittoriche correnti, molte delle quali che adottano posizioni politiche radicali su questioni scottanti. È la prima che mi è venuta in mente, ma come la nostra alla Civica, contestualizza il “mood” corrente che, molto spesso, passa per la figurazione pittorica come mezzo resiliente e innovativo».
Dott.ssa de Pilati, venendo alla mostra, con quale criterio sono stati selezionati gli artisti invitati?
«È stato un lavoro molto lungo e per nulla semplice. Siamo partiti da un “listone” di 60 artisti, poi abbiamo limato stringendo sui criteri, focalizzandoci su alcuni filoni di ricerca, e dandoci un target generazionale. I punti di partenza sono stati certamente la tecnica pittorica, lo stile figurativo e la cifra molto personale e riconoscibile. Per esempio, a uno sguardo superficiale, i lavori della Andreani possono ricordare quelli di Gian Marco Montesano, ma si tratta di una somiglianza puramente formale, a livello di contenuti si tratta di due artisti che si muovono su ricerche totalmente differenti».
Come si articola il percorso espositivo?
«Volevamo che il percorso iniziasse sia concettualmente sia dal punto di vista allestitivo con il lavoro di Margherita Manzelli. La considero la “mamma” di tutti gli artisti presenti, colei che negli anni ’90 ha avuto il coraggio di andare contro le mode del momento, in cui dominava l’arte concettuale, per dedicarsi a una pittura figurativa inconfondibile, stilisticamente netta e definita, che le ha portato grande fortuna. Manzelli ha dimostrato che la pittura è un linguaggio che lascia ancora grande spazio alla sperimentazione».
Dopo questo primo capitolo sulla pittura dal taglio realistico e iperrealistico, non pensa che dovrebbero seguirne altri per descrivere più compiutamente la complessità del panorama della pittura contemporanea?
«È un’idea che Alfredo Cramerotti e io condividiamo e di cui abbiamo discusso. Ci piacerebbe indagare, con lo stesso approccio curatoriale, i diversi modi di fare pittura oggi. Ci stiamo ragionando e il lavoro di ricerca, come è giusto che sia, prosegue. Tuttavia, è prematuro parlarne ora. Speriamo di poter riprendere presto l’attività di studio visit che, per progetti come questi, è fondamentale. La relazione con il lavoro degli artisti, la conoscenza del percorso e delle idee, il confronto con i curatori è per noi imprescindibile».
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