Cancellare, riscrivere e ricancellare: si tratta di un processo estenuante quanto necessario. In pochi sudati minuti passiamo dal chiederci se siamo veramente all’altezza (e la risposa è quasi sempre sì, anche se il dubbio rimane), all’arrabbiarci per il tempo sprecato. Il foglio word, così pallido e disponibile, a differenza della carta, non tiene traccia degli errori. Sarà anche per questo che lo prediligiamo? Questa è solo una delle tante riflessioni germogliate in occasione della mostra Manna Rain di Rita Ackermann, organizzata da Amanita presso la Fondazione Iris di Bassano in Teverina.
Come suggerito dal titolo, il soggetto dell’esposizione è proprio la pioggia; amica intima di scrittori e poeti, nel corso dei secoli ha rappresentato per i pittori una sfida affrontata raramente. Basti pensare a uno dei tòpoi più ricorrenti nel mondo dell’arte: la traduzione per immagini del Diluvio Universale. Dai miniaturisti a Michelangelo non vi è una singola goccia d’acqua che cade dal cielo, il concetto già chiaro sulla base di altri elementi. Usando come esempio il Diluvio di quest’ultimo, datato 1508-1510 e facente parte della serie di affreschi sul soffitto della Sistina, si può notare come la tradizione abbia relegato allo sfondo il compito di settare l’atmosfera, caricando gli orizzonti di nuvole attive nel loro intrecciarsi ma mai veramente bagnate.
Per avvicinarci alle piogge fitte di Ackermann è necessario aspettare l’ultima metà del XIX secolo, a partire da una delle cento famose vedute di Edo a opera di Utagawa Hiroshige. Acquazzone improvviso sul ponte Shin-Ōhashi ad Atake, stampa del 1857, ha aperto infatti la strada a una rappresentazione più realistica del fenomeno, delineando la pioggia tramite sottili righe nere su vaste campiture di colore.
Il fascino moderno di questa particolare prospettiva risulta evidente nella sua trasposizione di Van Gogh, datata 1887 e intitolata Ponte sotto la pioggia. Nonostante la ricostruzione olandese del fiume di Atake utilizzi l’olio su tela al posto delle tecniche di stampa, il risultato è pressoché identico: in entrambi i casi l’impressione della pioggia viene simulata con naturalezza, i filamenti sottili trattati alla stregua di un filtro.
La peculiarità dei lavori di Ackermann è una pioggia che diventa finalmente soggetto, lasciandosi alle spalle una rappresentazione realistica del panorama di cui è ospite. Le linee rigide e spontaneamente caotiche degli acquazzoni sembrano mistificare ciò che accade al di là del primo piano, ponendosi come una barriera tra sfondo e spettatore.
Analizzando in particolare Manna Rain (2024), il dipinto da cui prende il nome la mostra, si può notare quanto le figure stilizzate che solitamente caratterizzano la poetica dell’artista siano più delicate, quasi eteree nel rapido succedersi del loro groviglio. Una nuvola scura è stata stesa sopra l’orizzonte; anch’essa, informe, è solcata dal percorso violento della pioggia, che sembra avere origine ancora più in alto. Non lo vediamo ma si può intuire: l’ha mandata il Dio ebraico della Manna, colto in flagrante nell’atto della divina consegna.
La reazione delle silohuettes, umane e non, assume contorni sfumati. Sia in cielo che in terra i pastelli si agitano, imprevedibili nelle loro reazioni, troppo impegnati forse a subire il temporale per notare la benedizione.
L’astrazione delle forme è considerata dalla stessa artista un deliberato omaggio a Cy Twombly, ex proprietario della scenografica villa di Bassano ora sede della Fondazione Iris. Per l’occasione, Ackermann ha preso in prestito la sua attrezzatura, rapportandosi con gli oli e i pastelli da lui utilizzati per la creazione di alcuni capolavori della storia dell’arte.
In questo senso, una delle opere principali della mostra può essere considerata Ubiquitous (Outside of Time and Space), 2024, installata nello studio del pittore, una calibrata risposta alla seconda versione del celebre Treatise on the Veil, 1970, facente parte della serie delle lavagne.
Ubiquitous riprende le stesse esatte dimensioni di quest’ultimo, omaggiandone al contempo sia la tecnica pittorica sia la volatilità della narrazione. Come infatti Twombly ha analizzato il Velo senza cercare di oltrepassarlo, così Ackermann lo ricrea, cancellando la propria composizione per stupire lo spettatore con una lavagna sbiadita. Ai lati della composizione, così come per Manna Rain, gambe e braccia lottano ancora per sopravvivere al tempo: viene da chiedersi se i soggetti relegati al di là del Velo possano ancora esistere, o se invece il soggetto dell’opera sia proprio ciò che resta delle loro ceneri. A ogni modo rimane l’impressione di avere davanti una grande lezione di umiltà, il vero atto d’amore di uno studente verso il proprio maestro.
La mostra, inaugurata il 10 giugno, sarà aperta al pubblico fino al 31 luglio 2024.
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