«Non si ha mai paura dell’ignoto, si ha paura della fine del noto» Krishnamurti
Non è possibile guardare dritto negli occhi un coniglio poiché al centro del suo sguardo esiste un piccolo punto cieco. Questo punto non mette a fuoco la realtà come si presenta, ma suggerisce un’interpretazione alterata: Aldo Sergio nella personale Guardare negli occhi un coniglio, presso la galleria Tommaso Calabro a Milano fino al 14 settembre 2024, ci invita a esplorare questo segno fiabesco e inatteso, una corsa verso il Bianconiglio che potrebbe condurci verso una conoscenza superiore.
Sergio si concentra sulla fine, o meglio, sulla circolarità che connette l’inizio e la fine. Il suo intento è amplificare una censura, la memoria e la sua origine fantasmatica, in una pittura allenata e matura, efficace perché inconfutabile. La mostra presenta tre momenti di riflessione dell’artista in due nuove serie titolate Ode to Zero e At Last iniziate nel 2020, un surrealismo enigmatico che guarda all’oggetto e ne intensifica la presenza, in un percorso spirituale ma non totemico. La transizione dai minuziosi bozzetti preparatori, la loro espansione sulla tela fino alla desaturazione totale rappresentano il processo di dissoluzione del ricordo che ci avvicina alla comprensione del fin di vita.
I lavori di Ode to Zero inscenano tovaglie bianche posate su tavoli vuoti, legni che provengono da contesti sacri e profani, da sacrestie e case delle nonne, diventando ora i tavoli del pranzo della domenica, ora il tavolo autoptico dell’obitorio. La pittura espone i suoi vuoti, il momento di quiete quasi tangibile nel quale il pensiero può fantasticare, divagare. «Siamo noi i cercatori: è dove non vi è nulla che la mente può liberarsi. Lavoro sugli inizi, sull’incapacità del pensiero di fermarsi. Esso infatti tende sempre ad aggiungere, faticando a togliere. Sottraendo, arricchiamo il discorso sull’esistenza». Il tavolo è portatore di memorie affettive e soggettive, simbolo della tradizione pittorica che richiama le tavole imbandite di Matisse, i mangiatori di patate, le colazioni di Velasquez, le nature morte di Van Gogh.
At Last è un’indagine sul fenomeno pseudoscientifico dell’Optografia, il processo di recupero dell’ultima immagine registrata dall’occhio poco prima della morte. I dipinti della serie, le cui scene sono riprese da fotografie e web, fanno del bianco e delle sue tonalità il linguaggio primo: la tavolozza di partenza è scarica, desaturata e senza contrasto. La conoscenza della tecnica ad olio ha messo gli oggetti nella condizione di parlare, costellandoli di lampi come simboli la cui sintassi viene dislocata in una nuova alterità, annebbiata ma lucida. Il tema della fine evoca un’atmosfera serena, una celebrazione della luce che tenta di colmare le aporie della morte, impasse paradossale e insolubile. «Le fotografie più interessanti sono quelle fatte per errore», racconta Sergio, «come quando scarichi un drive o la memoria della macchina fotografica e trovi quella foto brutta, sfuocata, involontaria. È l’irrazionale catturato in immagine, che una volta dipinto si carica di un discorso narrativo. Con la mente vedi emergere le linee di composizione, vedi una struttura: questa è una reazione alla proliferazione infinita di immagini digitali e distratte di oggi. Quanto è faticoso mantenere l’attenzione? Quando abbiamo visto troppo?».
Il concetto di diluizione del corpo e della memoria, parcellizzata sino al vuoto, riprende il concetto di “fine del web” e la condizione della post-fotografia: «Siamo accecati dal guardare, siamo soggetti a un’inflazione delle immagini senza precedenti», scrive Fontcouberta. L’iconosfera, sempre al limite della saturazione, è figlia di una società ipertecnologica e della velocità vertiginosa della Rete. Ricordiamo i precedenti lavori pixelati di Segio, in cui i quadratini scompongono nature morte, figure umane e icone sacre, aumentandone l’aurea spirituale che viene ricomposta nell’era del digitale e nei suoi malfunzionalmenti. I lavori di queste serie, se guardati attraverso la camera di un telefono, mostrano questa distanza fisica tra umano e non umano. Aldo Sergio è affascinato dalle infinite potenzialità del pigmento pittorico: i colori sulle tele sono frutto di una meticolosa ricerca della tonalità, della sfumatura giusta, della minuzia del dettaglio. Dettaglio che non è mai didascalico ma vuole regalare suggestioni, come il titolo della mostra stessa. Il momento dello studio preparatorio è laborioso e di antica maniera, i colori usati nel tempo sono appuntati minuziosamente in un processo che ricorda la meditazione e la spiritualità. I bozzetti sono «preghiere, annotazioni che raccontano di un’intenzione del pensiero, un diario di visivo per notare le corrispondenze tra i ricordi», nelle sue parole.
La cura estrema ha derivazioni dalla cultura orientale, lenta e senza strappi, parte del vissuto esperienziale di Sergio insieme a letture come Satprem, La Madre e Willigis Jäger. «Dipingere un’immagine vuol dire imprimerla per sempre. Se dopo anni questa immagine mantiene mistero, potenza e forza, allora ha senso continuare a dipingerla, a farla crescere. I miei lavori sono appunti di idee, appunti di futuro». Guardare negli occhi un coniglio è la prima collaborazione con Aldo Sergio e la seconda mostra di arte contemporanea presso Tommaso Calabro, preceduta da una mostra di Copley in dialogo con lavori di Flaminia Veronesi ad aprile scorso. La nuova sede della galleria a Milano, storicamente focalizzata sull’arte del XX secolo, occupa gli spazi di Casa Grondona, un palazzo dell’ottocento in centro città, aperta da gennaio di quest’anno. Oltre alle mostre a Venezia, un nuovo spazio espositivo a Feltre sarà inaugurato in autunno: l’intento è portare «nella città il moderno e il contemporaneo nella provincia», in un palazzo storico che si offrirà ad artisti e visitatori come un momento di decompressione, decentrato e più arioso.
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