È una ricerca sulla plasticità quella di Giorgio Andreotta Calò (Venezia, 1979): un lavoro di fino su come la fisicità degli oggetti e delle città incorpori —e poi lasci affiorare piano piano— i segni del tempo che passa. Sono “residui attivi” i suoi lavori: elementi concreti che portano i segni di processi e azioni che in essi si sono consumati.
La piccola ma preziosa esposizione Giorgio Andreotta Calò. Scultura lingua morta, a cura di Elisabetta Barisoni e ospitata in due sale al secondo piano del museo di Ca’ Pesaro, offre un’interessante occasione per immergersi nelle riflessioni e nei lavori dell’artista veneziano, apprezzato a livello internazionale.
Il titolo del progetto muove i propri passi da uno scritto di Arturo Martini, che, nel 1944, raccontava —non senza sofferenza— di come la scultura non riuscisse più ad essere una lingua universale per un’umanità ormai vessata dagli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Il saggio —intitolato, appunto, La scultura lingua morta— è dunque una sconfessione della natura salvifica della statuaria: la drammatica testimonianza di uno dei grandi maestri del Novecento, incapace di credere nel potere di quel mezzo che lui stesso amava.
Proprio con una scultura di Martini —le cui opere, tra l’altro, costellano le collezioni di Ca’ Pesaro— entra in dialogo Calò nella prima sala della mostra a lui dedicata. Qui, la celebre Testa di Medusa (1929) proveniente dal deposito del museo è infatti rapportata ad un lavoro della serie di Meduse di Calò.
Le due grosse, tondeggianti teste si danno così vita a vicenda e creano un’atmosfera quasi inquietante. D’altronde, per l’artista veneziano, il museo di Ca’ Pesaro ha e avrà sempre in sé «un potere oscuro», una dimensione quasi mistica amplificata dalle luci soffuse dell’esposizione e dai profili delle opere esposte.
Se questo primo spazio, dunque, è dedicato al dialogo di Calò con le collezioni del museo, la seconda sala esplora invece il suo rapporto con la storia del palazzo stesso, in particolare focalizzandosi sulla sua architettura e sulle varie ristrutturazioni che l’hanno caratterizzata. Qui, infatti, il visitatore incontra, adagiati sul pavimento, lunghi tubi semicilindrici in acciaio: sono i carotaggi eseguiti dai professionisti dei Lavori Pubblici del Comune di Venezia sulle facciate del palazzo, che danno dunque forma concreta alla storia del luogo in cui si inseriscono.
Il passato del palazzo, poi, riaffiora anche dalle pareti delle sale, grazie a tutta una serie di trasferimenti in bianco e nero realizzati in collaborazione con il giovane collettivo veneziano Ipercubo (Nicolò Brunetta, Matteo Rattini, Stefano Stoppa e Erica Toffanin). Si tratta di documenti d’archivio, materiale fotografico riguardante l’architettura longheniana, la facciata dell’edificio e l’allestimento delle opere: tracce che si insinuano ed integrano nello stesso luogo di cui raccontano la storia.
Entrano poi in stretto dialogo con l’architettura anche le celebri Pinne Nobilis di Calò, sculture bronzee che si arrampicano sugli stipiti delle porte e si annidano sul balconcino esterno. Con le loro forme lacustri, le pinne di Calò diventano un poetico riferimento alla città di Venezia, in cui l’artista nasce e si forma.
Un altro evidente riferimento alla città proviene poi dalle sue Clessidre, di cui, in mostra, sono esposti diversi modelli, realizzati tra il 2017 e il 2022. La loro forma deriva infatti dall’immagine di un tronco corroso dalle maree salmastre della laguna: anche in questo caso, dunque, si tratta di un processo che si fa forma concreta, stabile.
L’acqua, perciò, si fa elemento integrante dell’opera, anche se solo in forma di allusione e sta proprio qui, forse, la capacità di Calò di ridare vita alla scultura: la presenza fisica delle opere, la loro plasticità, diventano, nel suo lavoro, sempre un mezzo per evocare qualcosa di più ampio e articolato, qualcosa di invisibile, ma presente.
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