«Io credo di poter coniugare quel periodo col momento più bello della mia vita giovanile». Con tali parole, cariche di nostalgica ammirazione, il prof. Emmanuele Emanuele, Presidente della Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale, racconta a chi gli chiede di descrivere i suoi ricordi, di riportare la personale testimonianza delle dense giornate di quegli anni. «Arrivato a Roma nel 1962 -prosegue-, e vivendo proprio a via Margutta, ebbi modo di incontrare gli artisti di quell’epoca, mirabilmente presentati in questa mostra». Perché è durante l’inaugurazione della collettiva “La Scuola di piazza del POPolo. Pop o non Pop?”, curata da Gabriele Simongini negli spazi di Monogramma Arte Contemporanea di Giovanni Morabito, sita al civico 102 proprio della storica via Margutta, promossa dalla citata Fondazione, che il prof. Emanuele condivide i propri ricordi.
«Era un mondo assolutamente unico – prosegue – nel contesto di una città che aveva la meraviglia di Cinecittà e di via Veneto, una strada dove si incontravano i personaggi più significativi e rilevanti del mondo internazionale. Tuttavia, la peculiarità di via Margutta, era la vivificazione culturale e artistica della strada, da parte di queste persone che non erano soltanto degli artisti, erano dei rivoluzionari, poco disponibili a costumarsi con il rituale del tempo. E ogni giorno era più bello di quello precedente».
La narrazione, non solo di una Roma che fu, ma di tutta un’epoca, quella del dopoguerra, florida e fiorente, attraversata da entusiasmo, ottimismo, grande fermento, e proiettata verso il futuro, ma irrimediabilmente conclusa. Perciò, Giovanni Morabito, quotidianamente si impegna affinché la via sia di nuovo adeguatamente rilanciata e ravvivata, anche con l’attività della sua galleria.
Un’atmosfera, quella degli anni Sessanta e di queste vie, che rivivono nel racconto di usi, consuetudini, modalità, condivisione, ormai del tutto scomparsi. Il ritrovarsi le sere nel ristorante dei fratelli Menghi (che non esiste più, e mirabilmente rappresentato da Ugo Pirro in Osteria dei pittori), o Da Cesaretto; per compiere il giro del Tridente, partendo da caffè Rosati, proseguendo su via Ripetta fino all’Accademia di Belle Arti (per fare gli sberleffi agli studenti), attraversare via del Corso, arrivare a via del Babuino e, quindi, a via Margutta, per visitare la Galleria La Tartaruga (1963-1968), che Plinio de Martiis aveva trasferito proprio sopra il caffè Rosati, il bar dove si poteva facilmente incontrare Antonietta Raphael e Mario Mafai, Pietro Consagra, Giulio Turcato, Toti Scialoja, Elsa Morante e Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, e molti altri (situazioni amabilmente tracciate da Goffredo Parise in L’odore del sangue).
«Un’epoca – continua il professore – che vedeva nella creatività, uno strumento per implementare la propria vitalità esistenziale e tutto si vedeva in prospettiva, di un futuro. Tutto il contrario di oggi». È in questo quadrante, e in quest’arco di anni, che un folto gruppo di artisti – descritti da Laura Pitagora in Fiato d’artista-, appartenenti alla medesima generazione, ha dato vita a quel “movimento” artistico che la letteratura li ha designati come gli artisti della “Scuola di piazza del Popolo”.
Trovandosi praticamente schiacciati dagli artisti della Transavanguardia e dell’Arte Povera, orfani di un critico potente in grado di fornire loro una solida base concettuale e promuoverli nel territorio italiano ma, anche e soprattutto, a livello internazionale, non ottennero quel dovuto riconoscimento quali imprescindibili precursori di successive forme artistiche (tra cui la stessa Arte Povera). Un mancato riconoscimento che, obtorto collo, li vede accomunati nella generica, quanto fuorviante e imprecisa, voce di Pop Art italiana. Per questo, il sottotitolo della mostra, “Pop p non Pop?”, si presenta con un essenziale punto interrogativo. Perché il clima è quello Pop, ma lo sguardo degli artisti è del tutto rivolto all’arte italiana, alla metafisica di Giorgio De Chirico.
La stessa definizione di Scuola di Piazza del Popolo è altrettanto carica di interrogativi (Lorenza Trucchi attribuì a se stessa la denominazione), come gli artisti che vi si riconoscevano. Gli stessi artisti, infatti, raggruppati sotto questa definizione, mal tolleravano l’idea di scuola e di essere membri di una qualsivoglia istituzione sociale preposta alla trasmissione delle conoscenze.
Sia per il folto numero di artisti e di opere raccolte sotto l’egida di questa Scuola, sia per le contenute dimensioni dello spazio espositivo, il curatore ha scelto di costruire la mostra per exempla. Alcuni lavori, anche se meno noti, hanno l’eccezionale merito di mostrare altri aspetti e sfumature della ricerca dell’artista, come nel caso di Pesce (1964), una tecnica mista su faesite di dimensioni ridotte di Pino Pascali; o di Colori (1964), un delicato collage su carta e smalto di Jannis Kounellis. Riconoscibili con le loro sagome, di legno uno, di colore nero l’altro, sono Due figure (1966) di Mario Ceroli e Studi di “Gesti tipici” (1962), uno smalto su carta incollata su tela di Sergio Lombardo. Inconfondibile è lo sguardo denso e sensuale della Liberty in geometrie (1969), realizzata col tipico smalto argentato da Giosetta Fioroni. Colori squillanti e elementi prelevati dal quotidiano sono la nota distintiva anche di Paesaggio con la maniglia (1969) di Tano Festa. Mentre con la caratteristica visione quasi in filigrana, sono i simboli politici di Senza titolo (1969-72) di Franco Angeli.
L’immancabile rimando al cinema è il décollage NO PA SE (1959) di Mimmo Rotella (non bisogna, comunque, dimenticare quanto questi artisti dovevano a Cinecittà stessa). La mano nei capelli (1966) di Cesare Tacchi è un’inedita personalizzazione delle lezioni di Enrico Castellani e Roy Lichtenstein. La riduzione a grado zero della pittura condotta da Mario Schifano (“monocromo giallo” Venere di Milo 4, 1965-66) e da Francesco Lo Savio (Filtro, 1961-62). L’indagine tra significante e significato attraverso l’isolamento delle immagini è quanto compie Renato Mambor con la sua Campionatura (1966).
E tutti questi artisti, con le rispettive opere in mostra, come delle comete, sembrano indicarci il cammino illuminando la strada, attraverso degli originali lightbox sospesi in alto di via Margutta.
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