Italo Svevo diceva che l’immaginazione “è una vera avventura”. E poi ammoniva dall’annotarla troppo presto perché “la rendi quadrata e poco adattabile al tuo quadro”.
Se la crisi che abbiamo attraversato (o stiamo attraversando?) ha in sé un ripensamento del tempo, dello spazio, della visione e del riconoscimento, rendendoci consapevoli che prima di essere fisicamente presente, oggi, qualunque cosa può esistere in digitale, allora l’immaginazione, quella fluida, è proprio quel che ci serve. Quell’immaginazione che Mattia Sugamiele, accompagnato dalla curatela di Anna Vittoria Magagna, ci offre nella galleria di Alessandro Albanese.
Reale e digitale, dunque. Dentro e fuori. Possiamo prescindere da uno dei due, come se andassimo cercando tutto e niente? Assolutamente no. Oggi reale e digitale non sono più opposti disgiuntivi bensì sono due matrici dislocate ai poli dello stesso asse. Un asse lungo il quale noi abbiamo la possibilità di vivere. Un asse che forse somiglia ai litorali bassi delle coste marine tropicali, in quella fascia periodicamente sommersa dalla marea, che, guarda caso, è proprio dove crescono le mangrovie.
Mattia Sugamiele, ripensando alla storia dell’arte, cerca di esprimersi nella maniera più classica possibile, come dimostrano le due grandi tele dipinte che aprono e chiudono la mostra, confrontandosi sia con la pittura che con tessuti più freddi per richiamare i motivi del digitale. Pittoricamente parlando l’artista sceglie i colori a olio e spray per uscire dall’universo bidimensionale: con l’ausilio dell’aerografo ricrea “pieghe” che, se al tatto sono lisce, alla vista emergono, escono, proprio come i contenuti digitali escono e abitano la vita fisicamente presente di tutti i giorni.
Entriamo nella mostra salendo delle scale circondati, sulle pareti, da sculture in tessuto che richiamo forme ludiche. Non è del resto il primo approccio di noi tutti al digitale il gioco? La prima stanza è una vera e propria dichiarazione di intenti: è generoso Sugamiele nel fornirci gli indizi di quel che è la sua attuale ricerca. La pittura coniuga tre diverse anime, l’olio, lo spry e l’acrilico. Le sculture, risultato di campionature virtuali e poi sagomate richiamando le geometrie utilizzate dai programmatori come unità per oggetti più complessi, lasciano emergere il digitale da una forma concreta, attraverso tessuti che imitano il normal mapping, ora opachi per ricoprire l’ovatta ora lucenti per ricoprire polistirolo. Sono pensate come oggetti 3D, per agevolare il movimento fluido e moltiplicare all’ennesima potenza forme comunemente dette – e immaginate – da tutti, come per esempio il pixel. L’insieme, come un corpo unico, si relaziona al pavimento, che richiama l’aspetto fluido, realizzato attraverso l’ingrandimento, di immagine archiviate, fino ad annullare qualsiasi forma conosciuta e ottenere un trionfo di colori che si incontrano, si toccano, si sfiorano e si baciano, come se il colore fosse l’unica fonte in grado di limare la forma. Un qr code, quasi nascosto, forse per favorire l’esperienza fisica, ma al contempo per consentire di esperire digitalmente, ingrandendolo ed “entrandoci dentro” a seconda delle sensazioni, quel pavimento su cui possiamo camminare, soffermarci, parlare. In una parola, essere presenti. La domanda, dettata da uno spaesamento più che lecito, voluto, sorge spontanea, dove sono? Qui o lì? No, qui e lì.
Si prosegue incontrando un’altra scultura, nera, profonda. Sugamiele ci svela essere un nero vegetale, mai usato prima e scelto proprio per le sue caratteristiche che solo in presenza si possono sentire e vedere. È questo lavoro ad anticipare l’opera video realizzata con il cellulare, partendo da tessuti dipinti, attraverso una serie di movimenti di mano combinati ai comuni e addizionati effetti del noto (e forse indispensabile?) social, Instagram. Così Mattia Sugamiele realizza un vero e proprio circuito tra forme e colori che incantano e inchiodano, incapaci di immaginare cosa seguirà.
Chiude la mostra la seconda anima, un dipinto di grandi dimensioni in cui è più evidente il lavoro con l’aerografo per sottolineare, se ancora ce ne fossero dubbi che reale e digitale percorrono lo stesso asse, quello della nostra vita.
La società delle mangrovie ci dice a gran voce che l’interesse di Mattia Sugamiele è tutto rivolto alla trasformazione dell’immagine, che muta, fino a scomparire, spesso privata del sistema di segni che essa era in grado di evocare, creando un vuoto in cui la tecnologia trova il suo spazio. Come se il silenzio, se il vuoto, fossero cosa viva. Del resto, se nel suo lavoro di tecnologia ontologica Gilbert Simondon ipotizza l’entrata degli oggetti nelle vite umane come agenti in grado di attivare relazioni tra gli esseri umani e lo spazio in un modo più complesso, di fronte al lavoro di Sugamiele possiamo pensare che quel vuoto, quel silenzio, siano come fertilizzanti per una relazione che si dona in un rapporto con il circostante: come a confermare che, sì, reale e digitale si sostengono reciprocamente.
E allora, come diceva Italo Svevo, l’immaginazione “deve restare fluida come la vita stessa che è e diviene”.
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