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La storia visiva del Ventennio fascista in mostra al Mart di Rovereto
Mostre
di Erica Baglio
I nomi di Mario Sironi, Carlo Carrà, Adolfo Wildt, Arturo Martini, Marino Marini, Massimo Campigli, Achille Funi, Fortunato Depero, Tullio Crali, Thayaht, Renato Bertelli, Renato Guttuso, e non solo, sono esposti in un percorso che accompagna il visitatore alla scoperta di un “fiorire delle arti, nonostante il terreno politicamente inquinato in cui attecchirono”, ovvero quello del Ventennio fascista, come afferma la curatrice Daniela Ferrari.
Eterogeneità di stili e di tecniche, personalità e nuove fonti di ispirazione non vennero a mancare nel panorama artistico italiano, nonostante il drammatico svolgersi degli eventi della storia. Nelle sale espositive del Mart 400 opere, tra pittura, scultura, documenti e materiale d’archivio, provenienti da collezioni pubbliche e private e poste in dialogo con i materiali dai fondi dell’Archivio del ‘900, si prestano come testimonianza della situazione delle arti visive italiane e della loro evoluzione in parallelo all’ascesa e al declino del regime fascista. Arte e fascismo – giustapposte e parallele, come già espresso dal titolo scelto per la mostra – evolvono nel tempo in un rapporto di rimandi e di influenze, ma mai di totale immedesimazione.
Arte e potere sono i protagonisti di una storia che si ripete in forme sempre diverse, ma con un epilogo inevitabilmente uguale. Laddove il nazismo aveva osato arginare la libertà e impugnare l’espressività degli artisti, imponendo una propria estetica e dichiarando il proprio disgusto per l’arte considerata “degenerata”, il fascismo sfruttò la potenza di questa forma di comunicazione in un modo diverso, comprendendo l’importanza di un linguaggio che poteva plasmare agli occhi esterni l’immagine del regime. Se l’influenza e il continuo rimando tra arte e contesto è inevitabile, l’assenza dell’imposizione di un’arte di Stato ha permesso la continua evoluzione di una varietà di stili e tecniche che hanno arricchito la storia dell’arte italiana e internazionale.
La mostra apre scegliendo Margherita Sarfatti, qui ritratta da Mario Sironi, come personificazione dell’ambivalente rapporto tra arte e potere. Curatrice ante litteram, Sarfatti ci introduce agli artisti che dal 1926 verranno riconosciuti sotto il nome di Novecento italiano. Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Marussig, Oppi e Sironi – gli “originali” del Novecento –, e Campigli, Casorati e Morandi, dialogano nella sala mettendo a confronto diretto le proprie diversità di stili, uniti però dalla ricerca di quella “limpidità nella forma e compostezza nella concezione” alla base del pensiero di Sarfatti. È il genio degli artisti, dei grafici, degli architetti che comunica all’esterno il clima politico e gli umori della società, che plasma un’immagine dello Stato. Percepito il peso che le arti potevano avere nel gioco della propaganda politica, fu chiaro al regime che incentivarle, più che sabotarle, sarebbe stata la giusta strada da seguire. Premi, sovvenzioni ed esposizioni sono strumenti che permettono agli artisti di presentare orgogliosamente le proprie opere al mondo e di accrescere il consenso. Questo fino alla firma delle leggi razziali del 1938.
Il ritratto del potere da sempre è un tema che attraversa la storia visiva della civiltà. Il volto di Mussolini è esposto qui in un continuo rimando di sguardi, di un volto sempre simile a se stesso, ma in un’inevitabile processo di sintetizzazione e idealizzazione, come vediamo nei busti di Adolfo Wildt. Mussolini ritratto come un Alessandro de’ Medici in armatura lucente, in un quadro stile pala quadra quattrocentesca, è l’interpretazione che del Duce fa Cesare Sofianopulo nella sua opera Il condottiero. È invece un gentiluomo in abiti borghesi ottocentesco quello di Gerardo Dottori, mentre assume sembianze napoleoniche il Mussolini su cavallo bianco nell’opera La prima ondata di Primo Conti. Rimane solo il profilo nelle sculture in continua rotazione di Bertelli, per diventare poi puro segno, inafferrabile, nei ritratti futuristi.
Velocità, azione, meccanica, guerra. Sono questi parte integrante della personalità del fascismo, quanto del futurismo. Fu una sintonia mai del tutto raggiunta quella tra Mussolini e il futurismo, i cui colori, le forme e le vedute aeree vertiginose, sono andate comunque a plasmare l’immaginario italiano dell’epoca e a determinare una svolta estetica del nostro Paese. Non solo pittura e scultura, ma anche l’arte murale – a riguardo vediamo i cartoni preparatori di Funi, a cui durante il Ventennio fu affidata la prima cattedra di affresco in Italia -, l’architettura, la grafica, sono tutti linguaggi visivi attraverso cui vengono celebrati i “miti” di una società forte, come gli atleti di Radice, Carrà e Marini – tra i tanti artisti in mostra -, e unita, come le famiglie immaginate da Bonacina.
Aperta con l’inarrestabile e vertiginosa affermazione del regime fascista, la mostra si conclude simbolicamente con un busto bronzeo di Mussolini nelle vesti di imperatore romano commissionato ad Adolfo Wildt da Margherita Sarfatti. Preso a picconate dai partigiani nei giorni della Liberazione, questo Dux “caduto” chiude un percorso artistico le cui opere sono il frutto di un inevitabile contatto tra potere e cultura, quindi civiltà, una civiltà che si è infine con forza ribellata e liberata dal controllo del regime. Il busto danneggiato trova il suo posto legittimo accanto alle altre opere d’arte, afferma la curatrice Beatrice Avanzi, in quanto “monito e testimonianza del nostro passato”.
Parlare di arti che fiorirono in terreni politicamente inquinati è un commento di parte fin troppo evidente, come se le arti non fossero esse stesse espressione, insieme al resto, anche di un potere politico.. Quindi perché non dire che anche quelle opere sono inquinate?