È un invito alla riflessione che parte dal termine stesso icona. Un rimando ai concetti di “immagine” e “somiglianza”, da sempre legato alla pittura religiosa, il concetto solo in tempi più recenti è stato associato all’idea di modello, figura emblematica. L’immagine, la sua capacità di rappresentare una presenza, tra apparizione e sparizione, ombra e luce, e di generare un’emozione, è al centro di questa mostra concepita per gli spazi espositivi di Punta della Dogana e per il contesto veneziano.
«Sembra naturale che un’esposizione intitolata Icônes si tenga a Venezia. I legami tra la Repubblica e Bisanzio sono cosa nota e all’interno della basilica della Salute, nelle immediate vicinanze di Punta della Dogana, la scenografia barocca sembra essere stata interamente concepita allo scopo di esaltare un’icona antichissima, minuscola rispetto all’edificio ma venerata come miracolosa. Mentre nel Rinascimento l’Occidente sceglie compatto l’immagine realistica invece della stilizzazione dell’icona alla quale l’Oriente e la Russia ortodossa restano fedeli, si direbbe che Venezia abbia voluto conservare scrupolosamente una traccia di quest’ultima filiazione. » spiega Bruno Racine, direttore e amministratore delegato di Palazzo Grassi—Punta della Dogana.
Una relazione, tra Venezia e l’icona, che si rafforza alla fine del Medioevo, l’arte veneziana, formata grazie alla sintesi di influenze diverse, in particolare bizantine, gotiche e fiamminghe, traduce il ruolo di collegamento tra Oriente e Occidente svolto dalla Serenissima. Ancora oggi Venezia è un incrocio. Orizzonti diversi si intersecano e si ibridano, per fornire un terreno fertile per la creazione artistica.
L’obbiettivo di Icônes qual è? Raccontare come l’immagine abbia la capacità di rappresentare una presenza, tra apparizione e sparizione, ombra e luce, di generare un’emozione. La mostra rivela l’essenza dell’icona come vettore del passaggio verso una possibile trascendenza, invitando ad altri stati di coscienza, contemplazione, meditazione, raccoglimento.
«Nell’epoca della proliferazione delle immagini, alcune opere generano ambienti sonori, cappelle immateriali che coinvolgono l’ascolto più profondo e rendono percepibili altre immagini, sensazioni e affetti.» , racconta Emma Lavigne, Direttrice generale della Pinault Collection.
È una sfida parlare di icone oggi, in un mondo che oscilla tra l’ebbrezza e la denuncia di fronte all’abbondanza di produzioni visive e all’inflazione commerciale del “tutto visibile”, una mostra che riprende il termine di icona mira chiaramente a restituire il suo potere all’immagine.
Attraverso un percorso di oltre 80 opere, tra capolavori della Pinault Collection, lavori mai esposti prima di quest’occasione e installazioni site-specific, Icônes raggruppa 30 artisti di diverse generazioni, nati tra il 1888 e il 1981. Le opere generano spazi, come fossero tante pause o “cappelle”, nell’era della saturazione di immagini. Tra figurazione e astrazione, la mostra invoca tutte le dimensioni dell’immagine nel contesto artistico contemporaneo, pittura, video, suono, istallazione, performance, e stabilisce dialoghi inediti tra artisti emblematici della Pinault Collection, tra cui David Hammons e Agnes Martin, Kimsooja e Chen Zhen, Danh Vo e Rudolf Stingel, Sherrie Levine e On Kawara.
La sfida che ogni esposizione tematica deve affrontare è quella di rendere comprensibili o sensibili le ragioni che hanno presieduto alla scelta delle opere e degli artisti. Icônes propone una gamma di esperienze che vanno dalla contemplazione delle opere estreme di Robert Ryman, di assoluta semplicità e raccolte come quelle di Roman Opałka in una sorta di santuario, all’impatto visivo e sonoro dei video di Arthur Jafa.
Qual è l’invito che Danh Vo ci rivolge mostrandoci la bandiera a stelle e strisce? Siamo lontani dall’immagine della superpotenza idolatrata che tutti cercano di imitare, pur professando odio nei suoi confronti: il vessillo lacerato pende miseramente come uno straccio, evocando la disfatta degli Stati Uniti in Vietnam e l’odissea della famiglia dell’artista tra centinaia di migliaia di boat-people. Assurta a simbolo della vanità delle grandezze umane, attraverso lo squarcio la bandiera lascia intravedere una Madonna con Bambino. Come gli altri artisti presentati, Danh Vo ci invita a portare il nostro sguardo al di là, a riconoscere l’icona sotto la varietà delle specie. Tocca a noi fare lo sforzo necessario per non essere come quelli “che hanno occhi e non vedono”.
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La persona che cammina solitaria la città, seza avvedersene aziona un flash che le "soffia" l'ombra su un telo che la trattiene a lungo staccata dai movimenti del corpo. Il flash fa girare la persona che scopre sul telo, permanere, la sua ombra di qualche istante prima, quando camminava ignaro. L'ombra, così, staccata dai movimenti del corpo, appare come un altro sé, autentico, profondo che porta a un feed back intenso. E' la scoperta dell'ombra. Che poi pian piano viene meno. Ma, se al posto del telo c'è un mio speciale retino metallico, ho 20 minuti di tempo per ritagliarlo lungo l'ombra che gli darà la figura. L'ombra in rete sarà il guscio dell'ombra che pian piano svanisce, viene meno, lasciandovi l'impronta di un attimo irriproducibile dell'esistenza. Icona nata direttamente dal corpo, l'ombra in rete dà una visibilità sintetica e fortemente suggestiva all'assenza. Tutto quello che è stato scritto su questa mostra sembra scritto per questa oper-azione in due tempi: la scoperta dell'ombra e la stele dell'ombra (l'ombra in rete). L'ombra e la trasparenza provengono dalla mia cultura veneziana.
Fortissima bellezza dell'intimo...si vede da dentro e le forme , le immagini , prendono anima