«L’opera d’arte è tutta la galleria. È evidente che non si può vendere. E allora è stato un passatempo?», scherza Giulio Paolini, uno dei maggiori esponenti dell’Arte concettuale, ospite alla Galleria Massimo Minini di Brescia con la sua mostra “Momenti della verità” (fino al 31 gennaio 2023). E invece è arte, poco mercato. Punto. Soprattutto è un progetto di valore nato da un’amicizia che dura da cinquant’anni. Discreta e intensa, con cui hanno scritto insieme pagine epocali della storia dell’arte contemporanea. «Anche questa volta abbiamo fatto un bel colpo», sorride sornione Massimo Minini. Come dargli torto? «È un omaggio reciproco. Siamo amici. Non è facile trovare qualcuno che ti assomiglia anche se è il tuo opposto. Questa è la settima mostra che facciamo insieme. Ma ognuna è stato un capitolo diverso». E allora scorre mezzo secolo: «Con Giulio Paolini abbiamo costruito una storia che inizia nel 1976 (si erano conosciuti nel 1972), un racconto in sette atti, alcuni corollari, molte avventure esterne (Rocca di Angera, Triennale, etc) e poi lettere, libri, viaggi, mostre nei musei. Abbiamo perso il conto, ma guadagnato un intenso rapporto. Se non oso chiamarlo amicizia è solo per rispetto della privacy del Nostro. Amicizia comunque oserei chiamarla, chiedendo permesso, a un grande che conserva la semplicità dei rapporti come punto più alto di una connessione. Opere e testi molto importanti di Paolini sono transitati dalla nostra galleria. E hanno lasciato il segno. Tanti segni sovrapposti sulle pareti che, se li unissimo come si fa con le immagini degli enigmi, darebbero sicuramente vita ai nostri ritratti, come diceva Borges», scrive nella presentazione.
Ma per questa tappa gli ha fatto una specifica richiesta: «Voglio una mostra immateriale. Non è rarefazione, è sottrazione. Molto bianco e qualche segno. Non volevo troppo. E allora all’entrata, nella prima sala, c’è un solo un parallelepipedo di plexiglas che ricorda galleria, e qualche altro pezzo. Ma pochi però». Meno colori, meno plexiglas, no installazioni. «Una mostra molto rarefatta. Anche troppo», scherza Giulio Paolini. «È una mostra che mostra nient’altro che se stessa. Tutta la galleria è l’opera d’arte. Suggerisce un percorso lungo il quale lascia tracce in successione: nella prima sala c’è un solo quadro alla parete. Nella seconda stanza le opere presenti riportano quanto hanno appena “visto” nella stanza precedente. E la stessa cosa avviene tra la seconda e la terza dove ci sono tre immagini che si schierano davanti a “riflettere” su quanto visto nella sala precedente. Nella quarta stanno insieme le opere nelle tre sale che abbiamo appena attraversato. Dimenticano la loro collocazione precedente e si riuniscono in un’unica rappresentazione. I quattro quadri danno luogo ai quadri precedenti. Ogni sala, insomma, riferisce un secondo tempo di quanto visto nella sala precedente. Di sala in sala si registra quello che hanno visto in quelle prima. C’è la figura tracciata sul muro della prima sala che sembra aver compiuto la visita e poi torna indietro». Quella sagoma di un uomo di spalle è la stessa che si presenta in tutte le sue opere, ovvero se stesso: Giulio Paolini, appunto. Ecco come la descrive: «Per una teoria generale della vita: noi non possiamo sottrarci all’attrazione per il dopo, ma si deve aspettare da fermi. Questo spiega perché la figura è sempre la stessa che si colloca in un modo immobile». (È la sagoma tratta da una foto che gli è stata di spalle quando stava andando a visitare la mostra di Anselm Kiefer all’Hangar Bicocca).
Aggiunge Paolini: «La teatralità (che è una dei suoi topoi)? C’è un’assoluta teatralità perché manca il soggetto. Il soggetto è lo spazio della sua teatralità medesima. Nella sua natura legata al luogo. E impensabile infatti che questa mostra possa essere venduta. Perché dovrebbero essere vendute anche le pareti». Ci tiene a spiegare Minini: «L’importanza del lavoro di Giulio Paolini risiede nell’aver tolto ogni traccia di sentimentalismo, conservando tuttavia il sentimento. Un lavoro freddo e poetico (direi freddo e quindi poetico), di una poesia che viene da quella ragione che dovrebbe essere la base di ogni sentimento. Un lavoro che riassume, riesuma, richiama il passato portandolo a nuova vita, essenziale, mentale, un ricordo pieno di attenzione nel citare gli antichi…».
Gli fa eco Paolini: «Qui è come un momento domestico. Fa eccheggiare la natura del luogo che è nostra. Che cosa c’è di arte? C’è l’intenzione di una rappresentazione molto speciale. Questa mostra può essere fatta solo qui. Non poteva essere fatta in nessun altro spazio. Il titolo “Momenti della verità” è in risonanza con l’espressione corrente: Momento della verità, inteso come momento decisivo nel corso della vita. Qui sono approdato in un luogo confortevole e amichevole. Non sono in una galleria tra le tante: Massimo Minini è stato un interlocutore particolare». Senza dubbio se per i tuoi cinquant’anni (di Paolini) ti in invia un telegramma con scritto: «Anche Pelé ha compiuto cinquant’anni. Auguri». Stesso humor, stesse visioni. Stesso senso dell’avventura intellettuale. E noi ci godiamo il frutto di questo sodalizio molto speciale.
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