Categorie: Mostre

Le “Perle rare” di Bruna Esposito, e il loro mercato

di - 13 Novembre 2019

«È un lavoro che desidero continuare finché sarò in vita». L’idea nasce nel 2004 per la Biennale di Gwangju. Il titolo, A grain of dust, a drop of water (Un granello di polvere, una goccia d’acqua), «mi fece sentire subito che dovevo fare qualcosa di piccolissimo; immaginai la conchiglia che reagisce al pur minimo granello intruso e per rigetto, o forse per renderlo innocuo, lo avvolge di strati che lo trasformano in perla». Così scrive Bruna Esposito in catalogo della mostra al San Fedele.

Che fare?

Una notte, al buio, è illuminato solo il foglio dove sta prendendo appunti, alza per caso lo sguardo su un orecchino, dimenticato in una ciotolina, e sulla perla vede una minuscola immagine che si muove con lei. «Mi vedo dentro la perla? Un prodigio? Ho le traveggole? Presi la lente d’ingrandimento e riguardai. Era vero».

Il dilemma è risolto. Fotografare delle persone riflesse su una perla nera e una bianca. Il progetto è accolto con entusiasmo dal curatore, con un fotografo coreano realizza il suo ritratto e quello di Annie Ratti. Propone la stessa cosa agli artisti della Biennale, nessuno risponde. Il dispositivo “tecnico” non funziona, la leva è affettiva. «Lo devo fare soltanto cogli amici e le persone a cui voglio bene, come Annie. Scegliere un luogo a loro caro, dove si riconoscano».

Bruna Esposito, vista della mostra, courtesy ALTO//PIANO

Il fotografo in Italia è Agostino Osio che inventa un obiettivo apposito e accompagna Bruna nel progetto, che inizia nel 2007.

Sono ventuno dittici, chiusi in cornici che si aprono per l’esposizione, come conchiglie, che circondano lo spazio come una collana.

L’edizione è di otto esemplari. La prima è donata agli amici ritratti, la seconda al Centro San Fedele, la terza ad Agostino Osio, la quarta a Maura Favero, la quinta al gallerista Federico Luger, la sesta ai suoi eredi. Le ultime due sono in vendita, con l’impegno di devolvere l’introito a una ONG da concordare con l’acquirente. Chi desidera può, però, commissionarle un ritratto singolo.

Sono indicazioni sostanziali per ritrarre le pose che la vita richiede. Chiudono il cerchio e lo aprono, modificano il rapporto col mercato pur non negandolo, proteggono le relazioni e le divulgano, evidenziano l’unicità e la mettono in dialogo.

Alle perle rare di questa collana si aggiunge quella dell’indefinibilità. A volte si riconosce in un guizzo di luce, di occhi, di calore, ma è lecito non interrogarla, lasciarla andare. Bruna Esposito compie il prodigio di dare all’indefinibilità una figura confrontabile e che resta.

L’emozione è grande, immediata, indecifrabile. Devo avvicinarmi, fissare i globi di luce, i fondi accesi dal colore o sprofondati nel buio, e allora appare, “il punctum che ferisce e ghermisce”, come scriveva Roland Barthes nel suo famoso saggio sulla fotografia (La Camera Chiara, Einaudi 1980), cioè il prodigio del riflesso delle persone in quel piccolo specchio baluginoso.

Bruna Esposito, vista della mostra, courtesy ALTO//PIANO

Alla mostra, le nostre parole si sono legate una all’altra. Una collana? Forse.

Ogni perla è un’essenza che potremmo avere dentro. In quella di Cinzia c’è uno sbuffo come se andasse verso il cielo. E il colore del fondo? Dipende dalla distanza dell’obiettivo.

Quello di Carmengloria Morales è ripreso in giardino, ha la tonalità di un suo quadro.

La perla che galleggia sul fondo, mi ricorda i suoi tondi dipinti. Hai ragione. Osservandoli si espandono in modo leggermente ipnotico perché lo sguardo ha sempre bisogno di incrociarne un altro. La perla di Jan Fabre si è divisa a metà, come se avesse colto lo spirito oscuro, fiammingo, forse la quintessenza della persona. Si tende a mettere a fuoco, ma qui non si può. Però c’è il contatto con il riflesso. Che è indefinibile come lo è la persona. La figura indefinibile sembra un controsenso, ma forse è la chiave per continuare a interrogarsi. Per secoli il dilemma è stato: come rappresentare, capire, non tralasciare. Se fossi religiosa parlerei di trascendenza o di karma, avendo imparato a rinunciare ad essere artefice, ho capito che sono un tramite. Rispetto alle persone a cui vuoi bene? Sì, tramite gli altri posso pensare a una biografia del sé e non dell’io, se le arti, qualsiasi esse siano, lavorano sul sé, o meglio sul for-se, potremo captare, contemplare, fidarci di quello che sfugge al dominio dell’io. È la scommessa di oggi per innovare le relazioni, i saperi, le aspirazioni. Io ho imparato ad avere fiducia nell’indefinibile. Io, invece, dai soggetti che donne o uomini mettono al mondo con l’arte. De-finire è legato alla razionalità, ma anche al finire, al morire. Lo straniero non esiste dentro di te. L’entusiasmo tecnologico che stiamo vivendo deve connettere la vita e non sottometterla. Nell’incontro con queste persone, la mia vita è cambiata, la perla ci ha connesso mentre si facevano ritrarre, che non è una cosa passiva, ma neppure definita. Tramite l’opera e tramite il luogo scelto da ognuno ti avvicini alla quintessenza? Sì: provi fiducia in ciò che sfugge, impari dal riflesso, da ciò che ancora non è. Non ti frena? Anzi, c’è un’apertura e da un granello puoi diventare una perla.

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