«L’isola che non c’è si può raggiungere solamente al crepuscolo, seconda a destra e poi sempre dritti» Scriveva J.M. Barrie in Peter Pan. L’isola che non c’è: una coordinata che si palesa davanti agli occhi dei soli che osano immaginare l’esistenza di mondi altri, cercandoli all’alba, tra il sonno e la veglia, tra sogno e realtà. Un luogo tanto affascinante quanto effimero, capace di sedurre e disorientare. Incanto e disincanto, desiderio e superstizione assieme a intuizione e ambiguità caratterizzano le due personali presentate alla Fondazione Sandretto: da una parte la pittrice Stefanie Heinze, berlinese con base a New York, con le sue tele dai vividi colori, dall’altra lo scultore mongolo Bekhbaatar Enkhtur e le sue opere polimateriche.
I dipinti di Heinze dirompono ogni precedente canone di lettura e riferimento. Risulterebbe semplice trovare somiglianze con il surrealismo di Dalì o Ernst, ma Heinze «non lavora sulla scia di altri artisti». No. Piuttosto invita ad avvicinarsi con un altro approccio ai suoi dipinti, dove vengono indagate nuove possibilità di rappresentazione. In questa cornice immaginativa, il linguaggio, la bocca (mouth), non può far altro che venire dopo (comes second), per lasciare spazio ad una relazione con l’opera puramente intuitiva, atavica, e sensoriale.
Dimentichiamo gerarchie, dimentichiamo di osservare i dipinti di Heinze e discutere poi di composizione, equilibrio e riferimenti storici. L’artista pratica la disgregazione volontaria di tutto questo, trovando «noioso» il termine composizione. Al contrario, ripone sovversivamente l’attenzione alla musica, ai meme, alla nail art, ai tarocchi, alle pratiche spirituali, alle pietre preziose e, non da ultime, alle strade di Brooklyn. Si intravedono, in effetti, nei grandi formati delle tele, quelli che sembrano essere paladini nati dai visual della cultura tecno o dall’immaginario visivo della cartomanzia. Sembrano voler comunicare con il visitatore, non ad un livello intellettivo, ma intuitivo e criptico. Le tele di Heinze sottopongono a giudizio la figurazione pittorica per come l’abbiamo sempre immaginata, sfidandone i canoni e le proporzioni. Si possono decodificare parti corporee, animali fantastici, oggetti di ogni giorno – come un paio di crocs – e poi portali divini e frutti. Ciò che colpisce – e destabilizza – è la loro distribuzione non gerarchica all’interno della tela, dove, suggerisce l’artista, «ogni piccola parte del dipinto fa da protagonista» e coesiste con le altre: come le note di uno spartito. Una visione ecologica dell’esistenza a cui Heinze ci pone davanti e su cui chiede urgentemente di fare i conti. É ancora possibile una realtà che abbia a cura ogni ecosistema in modo ecologico?
Accanto, la sala che ospita Hearsay, il sentito dire, riflette sul potere culturale che le credenze e le superstizioni hanno ancora oggi. Una scia di stelle argentee occupa sinuosamente la stanza e sale dalla quota più bassa del pavimento, sino ai muri perimetrali, permettendo ai visitatori il tempo di girarvici attorno e, perché no, di esprimere un desiderio prima di arrivare all’ultima stella, simbolo della sua stessa rapida evanescenza. L’immaginario magico e surreale che le comete da millenni alimentano si scontra brutalmente con la scultura in cera d’api di un gufo esanime accasciato sopra una rete metallica. Il metallo, lo stesso materiale utilizzato per le stelle, si alterna repentinamente a significare ora aspirazione e fede, ora fallimento e caducità.
Nell’interazione simultanea di queste due polarità, Enkhtur gioca con i significati custoditi nei miti che parlano di stelle guida e di animali notturni simbolo di saggezza e protezione. Ne costruisce una narrazione che mette in discussione nel presente le antiche credenze sciamaniche e animistiche. Smantellandone con sarcasmo l’autorità, lo scultore sembra mettere in discussione anche le tradizioni delle proprie radici geografiche, dove la religione del Tengrismo – non a caso, in mongolo, “cielo blu eterno” – permea profondamente aspetti della vita e della cultura.
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