«La natura in sé mi affascina: l’organizzazione fenomenica del movimento dei liquidi, le forme delle foglie, la struttura dei semi, la complessità delle forme minerali… Le osservo, e lascio che siano loro a indicarmi la strada». Con queste parole, Loris Cecchini (Milano, 1969) racconta i cardini della propria poetica: una ricerca che va a concretizzarsi in strutture rampicanti, pappagallini pixellati, sculture lucenti.
Una ponderata selezione di questi lavori tecno-organici è oggi in mostra negli storici spazi del Museo di Ca’ Rezzonico per il progetto Leaps, gaps and overlapping diagrams, a cura di Luca Berta e Francesca Giubilei.
Cecchini è interessato, appunto, alla natura, ma non tanto alla sua epidermide, quanto piuttosto alla sua ossatura molecolare, a ciò che compone strutturalmente alberi, corpi e paesaggi. Con i suoi lavori, l’artista va perciò a scorticare questi elementi, dando vita a composizioni che ricordano atomi, costellazioni e fitte nuvole di dati.
Esemplari di ciò sono le monumentali installazioni in acciaio e alluminio che si arrampicano e proliferano nel cortile esterno del museo: Waterbones e Arborexence. Si tratta di lavori veramente site-specific – termine troppo spesso abusato in ambito artistico –. Essi, infatti, sono progettati in loco per rispondere alle asperità e agli equilibri delle architetture su cui si ramificano e con cui diventano un tutt’uno.
Entrambe le installazioni, come molte delle opere di Cecchini, trovano il loro punto di partenza in una singola, lucente unità, progettata digitalmente. Questi moduli, uniti l’uno con l’altro, vanno poi a simulare la logica vegetale, sviluppandosi in disegni contorti: è una vera e propria germinazione di particelle.
Altro elemento essenziale nel lavoro di Cecchini è un’attenta selezione dei materiali, con cui sperimenta per esaltarne texture e fisicità. Ciò è ben visibile nelle opere esposte nel lussuoso Salone del Ballo. Qui, infatti, l’artista gioca con resina, alluminio e nylon per creare superfici vellutate e cangianti.
Bellissimo è, in particolare, il lavoro Otherworldly Winds, red narrative (aeolian landforms on zigzag particles): più che di fronte a materiali industriali, ci pare di trovarci davanti ad un deserto di raso rosso.
I lavori della serie Zigzags particles, poi, sono interventi scultorei in alluminio: telescopi, estintori, sedie e uccellini. Essi sembrano sciogliersi – o addensarsi – di fronte allo spettatore in tante piccole sfere. Queste opere nascono dalle riflessioni dell’artista sugli spazi digitali e sembrerebbero, infatti, creazioni che non sono riuscite ad uscire completamente dalla rete di pixel che ha dato loro origine.
Queste nubi di sfere, inoltre, entrano in stretto dialogo con gli straordinari affreschi di Giambattista Crosato e Girolamo Mengozzi Colonna, che adornano il salone: in entrambi i casi, l’obiettivo è uno sfondamento, il rappresentare uno spazio altro, che si tratti delle nuvole che affollano il soffitto o il cloud rappresentato da Cecchini.
Come questi maestri del passato, dunque, l’artista ci propone un nuovo modo di vedere la realtà e ciò è riassunto alla perfezione nell’ultima sala del percorso espositivo, dove viene instaurata una relazione con Il mondo novo (1791) di Giandomenico Tiepolo.
Nel celebre affresco, un folto gruppo di curiosi si affolla intorno alla lanterna magica: il nuovo dispositivo per la visione che permetteva di vedere – ed immaginare – luoghi lontani e sconosciuti. Cecchini, a suo modo, ci parla di qualcosa di molto simile: del potere di arte e tecnologia di svelare le trame invisibili della natura.
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