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Fondazione ICA Milano inaugura l’autunno con una doppia mostra tutta al femminile, bipartita sui due piani del vecchio edificio industriale, che vede come protagoniste Leda Catunda, al piano terra, e Camille Henrot ed Estelle Hoy al piano superiore. Il primo atto del percorso espositivo ha inizio dalla porta-finestra spalancata sul cortile di ingresso, che teatralmente introduce da subito al pubblico l’attrice principale di questa narrazione. Gotas Transparentes è infatti l’opera genitrice che fa capo a Euphoria, la personale di Lea Catunda curata da Alberto Salvadori. Grandi gocce-lingue plastificate e intrise di colore fluttuano appese, celando momentaneamente la vista al resto della stanza e andando a nutrire le opere retrostanti, appese a parete, attraverso un gioco iridescente di luci che penetrano attraverso le trasparenze.
Opere a metà tra il pittorico e lo scultoreo, composte da materiali derivati dalla cultura di massa, come i jeans, già pregne di significato e risignificate attraverso l’applicazione del colore, rivelano universi onirici e tropicali, in aperta critica alla società dei consumi. L’euforia del titolo è quella dei colori sgargianti, dove il rosa, il viola, i rossi e i dorati vengono portati all’esagerazione. Ma è anche l’euforia che anticipa il momento prima del ritorno alla vita “normale”, dopo la stasi della pandemia di Covid-19, periodo in cui l’opera principale è stata concepita. L’instabilità, le tensioni in cui l’epoca contemporanea ci trascina tutti indistintamente, sono lo specchio davanti al quale l’artista si pone e inizia a creare, mantenendo un’attenzione verso le pratiche manuali e rimanendo all’interno di una sfera personale: “Ogni forma d’arte e ogni artista, pur nell’incertezza dell’intenzione al momento della creazione dell’opera, dà il suo contributo alimentando una memoria condivisa, testimoniando e documentando gli aneliti e i desideri del suo tempo”.
Dai colori saturi, salendo le scale, si passa quasi a un monocromo, con la mostra polifonica di Camille Henrot e Estelle Hoy, avvolta dal profumo di un aranceto. Jus d’Orange, progetto espositivo accompagnato da una pubblicazione, è l’esplosione nello spazio del corrispettivo editoriale. L’intervento curatoriale di Chiara Nuzzi, che si riflette anche nelle pareti dipinte nelle tenui tinte dell’alba per mantenere il continuum tra carta stampata, muri perimetrali, opere pittoriche e testo scritto, sostiene perfettamente il dialogo profondo tra le due artiste. Le opere di Henrot restituiscono immagini bizzarre, grottesche e irrazionali, così come la nostra realtà, un racconto fluido che si rincorre con le parole frammentate di Hoy, che a loro volta incorniciano e serpeggiano tra i dipinti della prima. Bucce d’arancia in forma di scultura esistenzialista, una substantifique moelle, sostanza molle essenziale, le arance che per Henrot rappresentano la possibilità di arrivare alla polpa, ai semi, al succo delle cose e che per Hoy sono i momenti che punteggiano e danno significato alla nostra vita, nel bene e nel male.
I testi scaturiscono dalle tele così come le tele scaturiscono dalle parole, udibile oltre che visibile è il dialogo in atto, l’immaginario è tracciato da figure antropomorfe e non, come la donna vampiro di Only as myself, sottili creazione umoristiche, dove l’ironia risulta essere uno strumento di difesa. Il fallimento non è contemplato nella società di stampo capitalista che ci guarda con il suo sorriso positivista di una perfezione irraggiungibile, ma qui trova spazio e sfogo, un luogo sicuro in cui sentirsi a proprio agio, in questo aranceto popolato di esseri stranianti e di parole sibilline ma definitive a cui prestare ascolto: “C’è quest’illusione secondo cui dobbiamo rimanere sempre attaccati all’operosità, all’ingannevole gioia del malessere e ai suoi amari dispiaceri”.
Jus d’Orange è un insieme di immagini, ricordi, memorie, frammenti di vita, scambi di messaggi e condivisione di idee tra due artiste che pongono all’attenzione dei riferimenti da abitare e in cui riconoscersi, portatori di una complessiva malinconia carica di speranza, quel poetico dolce-amaro che solo le arance sanno lasciare.