Una mostra che vede finalmente la luce dopo una lunga attesa, prevista per il 2020, ‘Edmondo Bacci. L’energia della luce’ sarà visitabile fino al 18 settembre. Un focus sul momento più internazionale della sua carriera, quando già affermato negli ambienti espositivi legati allo Spazialismo viene notato da Peggy Guggenheim proprio per la forza e la novità dei suoi dipinti . Timidezza e un grande fuoco convivono nelle sue opere, animate da una personalità da scoprire e riscoprire attraversando il periodo più lirico del suo lavoro.
«Una mostra antologica diventa sempre l’occasione per ripensare l’opera di un artista» spiega la curatrice, se poi vi si unisce una sufficiente distanza storica diventa un’opportunità per comprendere un percorso artistico da una prospettiva molto più obiettiva. Edmondo Bacci diventa così il perfetto caso di studio, un protagonista dello Spazialismo che in vita ha ottenuto un notevole successo, riconosciuto dalla critica nazionale più accreditata. Entrato nel circuito internazionale dell’epoca, ma lentamente, negli anni, inspiegabilmente scivolato in una zona d’ombra. Ed ecco che uno degli obiettivi della riflessione che pone le basi alla mostra è proprio capire l’evoluzione di questa dinamica, per provare a spiegare il motivo per cui un artista che ha ampiamente dimostrato qualità e rigore a un certo punto sia stato abbandonato.
Edmondo Bacci. L’energia della luce, approfondisce la parte più lirica dell’opera di Bacci, nel momento più internazionale della sua carriera, gli anni Cinquanta, quando, emerge evidente agli occhi della critica tutta la novità del suo dipingere, la forza generativa del colore, la rottura dei piani spaziali e il ritmo circolare della pennellata.
Sono anni in cui la città lagunare è una dei luoghi culturalmente più vivaci di tutta la penisola. Una vitalità dovuta anche alla presenza di esuli e di intellettuali, che a Venezia hanno trovato riparo dai bombardamenti. Il desiderio di rafforzare il collegamento con l’Europa e di non rimanere isolata spinge la comunità culturale veneziana a organizzare molte iniziative, tra cui importanti mostre in gallerie private di recente inaugurazione. Sono anni in cui nascono importanti collezioni come quella di Vittorio Carrain che comprende gli artisti che formeranno il Fronte Nuovo delle Arti, e altre aggiungono una sede a Venezia, come nel 1948, quando Peggy Guggenheim si stabilisce in laguna facendo conoscere al pubblico i nuovi artisti dell’Espressionismo astratto americano. Un ambiente dinamico, ma non solo per artisti affermati, anche per i giovani emergenti. Un ruolo essenziale è quello svolto dalla Galleria il Cavallino diretta da Carlo Cardazzo, raffinato collezionista, in grado di creare i collegamenti e le opportunità di confronto per gli artisti della generazione di Bacci. Una rete, costruita da continui viaggi tra Stati Uniti ed Europa che portano a Venezia informazioni, aggiornamenti e collaborazioni di fondamentale importanza per gli artisti che frequentano le sue gallerie.
«Scoppiano di luce, di energia e colore. Ogni nuova opera è più vitale del precedente. Le sento così esplosive che mettono in pericolo la sicurezza del mio palazzo. Ogni volta che un americano entusiasta ne porta via una, sento che la mia casa è in minor pericolo. Ma poi Bacci me ne porta una nuova. », così descrive Peggy Guggenheim, nell’Introduzione, del Catalogo della XXIX Biennale Internazionale d’Arte di Venezia del 1958, le opere di Bacci. Non si potrebbe descrivere in modo migliore l’irruenza del colore che traspare dalle sue tele, dove i suoi avvenimenti spaziali ci fanno “toccare con lo sguardo”, come spiega la curatrice durante la conferenza stampa.
Un colore che esplode “in tutta la sua gioiosa ebbrezza” ma mantiene sempre un equilibrio, giocato su tensioni e corrispondenze cromatiche. Ecco che entriamo in uno spazio dove le macchie colorate si espandono in virtù di una propria energia interna e vanno a stabilire equilibri, costellazioni e parabole nella circolarità dello spazio. Un processo complesso in cui si sovvertono tutte le suggestioni del movimento spaziale, un’influenza che parte dall’influenza del nuovo orizzonte scientifico: l’idea della curvatura dello spazio-tempo al di là della bidimensionalità del mezzo pittorico, permette di immaginare organismi sconosciuti muoversi sulla tela circolarmente, fino all’esaurirsi di un proprio stato cromatico-energetico. Un linguaggio colore-luce che si evolve, colpendo non solo la mecenate americana ma anche Alfred H. Barr Jr, allora direttore del Museum of Modern Art di New York, che acquistò dall’artista Avvenimento #13 R, del 1953.
Avvenimenti, una definizione che l’artista ha dato a tutte le sue opere. Dalla prima all’ultima. Tutte legate da una forza dirompente in cui lo spazio non è più sorretto da una griglia geometrica ma si genera unicamente dalle relazioni degli eventi di colore. Un colore che diventa spazio assoluto e che abolisce ogni limite tra superficie e volume, tra dimensione e traiettoria; il colore diventa pura materia di luce nel suo graduale processo di affrancamento dalla più pesante materia dell’Informale.
Il percorso in mostra, seguendo l’ordine cronologico, attraversa tutta l’opera di Bacci, prendendo il via dal nucleo di tele, in bianco e nero, intitolate Cantieri e Fabbriche, che l’artista realizza tra il 1945 e il 1953, ispirate agli altiforni dell’area industriale della vicina Marghera. Ogni sala ha la propria luce, in un cammino in cui seguiamo una pittura astratta che elimina progressivamente il segno per fondarsi invece, sempre di più, sulla funzione spaziale del colore.
La curatrice parla di due slanci nell’opera di Bacci, due momenti in cui i suoi lavori si irradiano di luce nuova. Il primo è forse più noto, quando a metà degli anni 50 crea il suo nucleo più poetico di opere. Un momento infatti, il 1956, in cui molte tele del giovane Bacci varcano l’oceano, aprendo così un importante periodo espositivo americano che culmina nella sua personale tenutasi alla storica Seventy-Five Gallery di New York nello stesso anno.
Il secondo slancio è forse meno noto, avviene intorno agli anni Sessanta e Settanta, quando rivolge il suo sguardo allo sperimentalismo. È qui che si incontrano i suoi “Gessi”, le “Sagome”, i “Teatrini”, tutte opere che riflettono l’incessante ricerca artistica di Bacci che in quegli anni si spinge verso nuove indagini extra pittoriche, rivolte alla materia. Un percorso vasto e completo, che riunisce preziose opere attivando tra di esse un dialogo che ingloba lo spettatore. Liberate dalla cornice le opere si impossessano dello spazio, esplodendo e creando paesaggi senza geografia in cui convivono macro micro. Opere in cui nulla è superfluo, ma tutto è semplice, vivo e intenso.
“Bacci ci mostra la purezza di ciò che è autentico e originale. La sua pittura non ha geografia; appartiene al mondo o allo spazio. Non si sa dove va il mondo e non si sa dove va Bacci”.
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