Entrare nello studio di un professionista, di un dottore, di uno scrittore, di un avvocato, perfino di un filosofo, può essere un’esperienza molto deludente. Non si coglie granché. Uno scheletro di plastica, qualche pergamena, tanti libri e diverse foto. Le idee, i momenti e i pensieri, le vita che hanno attraversato quelle pareti non ci sono più, o semplicemente non si vedono, non si mostrano a noi.
Tutto cambia quando si entra in uno studio d’artista. In ogni angolo, in ogni anfratto c’è un pezzo di vita, di azione, qualche ricordo, qualche storia attorno a un lavoro, a un oggetto. Visibile, toccabile, è lì. Non solo pezzi ma anche bozzetti affissi alle pareti, risulte di materiali abbandonati o semplicemente in attesa di essere riusati. Pennelli, acqua ragia, tele e carta vetrata. Oppure forme, calchi, gesso, armature, stracci e cannelli. Siamo dentro la testa e il cuore dell’artista.
Ma questo non è un studio, bensì il Cellaio, un antico deposito in muratura al centro del Real Bosco del Museo di Capodimonte, a Napoli. E qui, tra alberi della canfora, cipressi, magnolie e eucalipti, nasce la mostra antologica Giuseppe Pirozzi. L’atelier dello scultore. 108 le opere in esposizione tra forme plastiche, gioielli, serigrafie e litografie dell’artista, classe 1934, originario di Casalnuovo.
A cura di Maria Tamajo Contarini e Luciana Berti la mostra è il frutto di una sinergia con la figlia di Pirozzi, Francesca, che ha saputo, complice anche la magia delle sale, ricreare le atmosfere, l’equilibrio e le vibrazioni degli ambienti in cui ha lavorato il padre in questi 65 anni di carriera divisi tra l’insegnamento all’Accademia di Belle Arti ed esposizioni in giro per il mondo, tra Marsiglia, Bruxelles, Tokyo, New York e Los Angeles.
Entriamo così nel suo spazio, che è in realtà nella sua mente, nella sua visione, nel suo tempo raccolto e sedimentato. Tra statue, piccole sculture, gioielli, disegni e stampe. Si è circondati. Sette di queste sono state donate alla collezione permanente del Museo di Capodimonte e tra queste il dittico di bronzo prodotto in collaborazione con il mecenate Gianfranco D’amato.
“Approccio la scultura direttamente, plasmando l’argilla e lasciando che la forma scaturisca da sola, dalle mie mani e dall’immagine mentale che accompagna il processo poietico”. Qualcosa che ricorda il titano Prometeo che, secondo la mitologia greca, plasmò la figura dell’uomo dal fango e dal fuoco divino.
Così i materiali usati da Pirozzi. Strumenti in ferro, in pietra, bronzo, terracotta, argento, rame, cera. Materiali che in fondo sono materia unica, antica e primordiale. E’ il supporto della nostra auto-creazione, della nostra nascita. Essa ha recintato, costruito, innalzato e protetto l’uomo nella sua storia.
Una consistenza simbolica degna degli dei, degli eroi e dei primi uomini descritti dal poeta Esiodo e da tanti racconti mitologici. Pirozzi conosce dunque il segreto della creazione, lo manipola e si è lasciato manipolare, plasmare da esso e dalle sue opere.
E così, visitando l’atelier veniamo sorpresi da colonne che sostengono il peso della forma, intricate e masticate dalle età e dal ricordo. Colori e superfici nata già antiche, già classiche, ridotte dalla furia non del tempo ma della mano sapiente d’artista. Che asciuga, riduce e ossifica ogni elemento plastico all’essenziale. Ma che sa anche donare forme accartocciate, in lotta contro il tempo e il movimento, contro la staticità e la gravità. In un coraggioso equilibrio visivo ed emozionale.
Presenze che sembrano abitare lo spazio più che occuparlo, riempirlo. Come soggetti scenici, come pose in una delicata drammaturgia musicale più visiva. Narrano storie, suggeriscono emozioni da condividere, percorsi da intraprendere.
Come rievocare i suoni e il fragore dell’officina, del metallo, delle armature, dei martelli e degli sbuffi di vapore e calore che hanno contornato la vita di questo artista silenzioso e audace al tempo stesso. E’ un percorso mai concluso, che si apre sempre a nuove ipotesi, pronto ad essere ridefinito e rimescolato. Come la terracotta, come la terra, come le mani che trovano espressioni e linea momentanea, sempre pronte a ridefinirsi. “Penso alle rovine della guerra vissuta da bambino, ai ruderi archeologici scoperti da adolescente, alle frequentazioni di studio al Museo Archeologico”.
Il tema del “frammento” ricorre costantemente tra i lavori. Così queste schegge di passato trafiggono, seminando, continuamente il presente. Come in un film di Georges Méliès, come un lapsus di James Joyce o degli scarabocchi su carta di Salvador Dalì; come un pomeriggio alla vecchia Stazione di Parigi di Montparnasse fischiettando le Gnossienne di Erik Satie. Si vivono sensazioni diverse e complementari, apparentemente distanti ma che richiamano tutte ad una stessa vibrazione emozionale. Ad uno stesso universo esperienziale. Come gocce di tempo, che scorrono e scavano dentro i solchi della materia e delle emozioni dell’artista, che attraverso la sua scultura, “ricostruisce se stesso”, “fronteggia la propria fragilità di vivere”, di “provare amore” verso gli altri.
E come l’uomo, nel racconto prometeico, rimaneva incompleto e fragile, senza il dono del fuoco (rubato), così lo scultore, generoso e temerario come lo sfortunato titano, compone e completa la sua e la nostra foggia, arricchendo la nostra esperienza vitale attraverso l’arcano: Il gesto creativo, semplice e immediato della sua mano e del suo cuore.
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