Una parte per il tutto; una figura retorica estremamente attuale. Attraversando gli spazi confusi del PAC – Padiglione Arte Contemporanea di Milano, mutuati attraverso l’intreccio di sonorità provenienti da ambienti differenti, in occasione della mostra Andante con moto di Liliana Moro, ho ripercorso un film tanto assurdo quanto impressionantemente reale: Syneddoche, New York. Il film del 2008 di Charlie Kaufman, vede Philip Seymour Hoffman nei panni di Caden Cotard, regista teatrale incredibile quanto sul confine drammatico della disperazione. Ipocondriaco e malato allo stesso tempo, appare vivere in una dimensione eccessivamente personale, marcatamente narcisistica, sostanzialmente atemporale: gli anni scorrono improvvisi; le distanze tra un periodo e l’altro si contraggono, così come l’attaccamento di Cotard alla realtà. Il suo capolavoro: uno spettacolo – irrealizzabile – costruito in un immenso hangar in cui ri-costruisce la propria esistenza e la città di New York. Lo spettacolo, dopotutto, è, di per sé, la città di New York, vissuta – direi topologicamente – attraverso il filtro della soggettività del regista.
In un epoca storica in cui le verità vengono concepite per illazione – dal dettaglio all’architettura concreta dell’idea -, la personale di Liliana Moro al PAC, curata da Letizia Ragaglia e Diego Sileo e visitabile fino al 15 settembre 2024, costruisce un complesso sistema di stimoli diversi per catalizzare l’attenzione dello spettatore. Suoni, parole, sculture, collage… un progetto intermediale – e transmediale – che ricalca la quotidianità tediosa dell’esistenza invitando lo spettatore a cercare qualcosa oltre la semplice rappresentazione. Moro frammenta la realtà: passeggiando sopra vetri rotti di “ “ lo spettatore è invitato ad entrare nel processo dell’artista per ricostruire innanzitutto se stesso. Uno scambio costante tra artista e spettatore incorre trasformando il pensiero in atto.
Le opere alternano sollecitazioni differenti e pure in cui l’unico elemento costante è il suono: da Bella ciao all’ingresso, attraverso il vuoto – in una stanza completamente buia – e il suono insopportabile del passaggio di altri spettatori sui vetri, per arrivare alla prosa dell’assurdo. Ho visto un fortissimo riferimento all’avanguardismo di Philip Glass in Einstein on the beach, dove non ci sono né Einstein, né una spiaggia: è la semplice capacità del suono di essere pervasivo, di costruire un ambiente.
Un approccio sia partecipativo, che relazionale. Le sue opere non richiedono l’intervento dello spettatore per essere attivate, né l’interazione; semplicemente necessitano dell’ascolto e dell’immersione. Sembrerà una differenza sottile ai più scettici, ma fondamentalmente, quanto teorizzato da Borriaud e Bishop non può essere adattato alla poetica dell’artista. Ovviamente, non si tratta di un ragionamento assoluto – pensiamo ai vetri sopra menzionati, effettivamente necessitano dell’atto del camminare per essere propriamente fruibili – ma fondamentalmente è il punto di vista a essere totalmente differente.
Per Borriaud, l’opera d’arte assume valore e significato una volta che si fa catalizzatore di legami e relazioni tra gli individui. Il che implica non l’ordinaria produzione di immagini, bensì un articolato sistema di intrecci installativi il cui fine è riuscire a creare un legame, un’esperienza. Invece, per Bishop, le nuove vie che l’arte dovrebbe esplorare tendono a riguardare una sorta di ritorno a delle ritualità ancestrali: le arti devono implicare una partecipazione attiva dello spettatore, invitato a compiere un gesto che attiva l’opera. In Moro, si potrebbe parlare di una arte immersiva senza pretendere né la partecipazione dello spettatore né la costruzione di relazioni all’interno dello spazio espositivo.
Si tratta di quel monologo profondamente riflessivo proprio della pittura: l’artista, infatti, dipinge con il suono opere che intervengono direttamente nello spazio. Una traccia effimera che, tuttavia, appare restare nell’eco ancestrale del suo passaggio – testimoniato dagli interventi scultorei, che sembrano già di per sé parlare. Moro approfondisce questa prospettiva costruendo un’esatta sineddoche della sua carriera – come lo spettacolo di Cotard di Syneddoche, New York – rappresentando minuscoli modellini degli spazi espositivi in cui le configurazioni differenti delle esposizioni dell’artista si alternano su basamenti asettici di altezze e misure differenti. Una metafora perturbante del nostro castello della memoria; una riflessione critica che intreccia emozione e bibliografia.
Non c’è nessun confine tra realtà e finzione, l’unico, e fondamentale, pretesto per saperle distinguere si basa sull’etica, profondamente personale, dell’individuo. Tutto è soggettivismo puro (un’aperta opposizione a Stefania, della Grande Bellezza di Sorrentino, che parla di un “collettivismo puro”), e dunque, di per sé, autoreferenziale. Cotard non esce in alcun modo da sé. Credo che sarebbe interessante osservare in parallelo le nostre esistenze dopo aver osservato il film di Kaufman e la personale di Liliana Moro.
Personalmente, mi sono posto diverse domande: che cosa facciamo per riuscire ad affrontare la vita e il peso dell’esistenza? La percezione della realtà in quanto proiezione costantemente soggettiva – e narcisistica – quanto può svilire realmente il concetto di verità? La finzione – che può essere, in parte, considerata l’opposto della verità – come può insediarsi all’interno della nostra mente fino a diventare, nelle parole di Borges, una “finzione oggettiva”?
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