Si chiama “Love in a Mist: The Politics of Fertility” la mostra che risponde a viso aperto alle cosiddette Heartbeat Laws, le misure anti aborto introdotte recentemente in alcuni Stati americani come Mississippi, Kentucky e Georgia. L’esibizione, inaugurata alla fine di ottobre, resterà aperta fino alla metà del mese prossimo all’Harvard Graduate School of Design di Cambridge, negli Stati Uniti. Per tutti coloro che non potranno arrivare oltreoceano, qui l’assaggio di un’esibizione che risponde con coraggio alle politiche a danno dei diritti umani, animali e dell’ambiente.
La mostra, a cura dell’architetta e ricercatrice Malkit Shoshan, nasce dalla volontà di ripercorrere gli innumerevoli tentativi di controllare la riproduzione umana e animale. L’uomo ha sempre cercato di gestire la fertilità in modo sempre più subdolo, dapprima con prodotti naturali, poi con ormoni e steroidi, per mantenere un controllo sul corpo femminile, sulle politiche riproduttive e sugli allevamenti. Il tutto non senza conseguenze: da un lato il sovraffollamento degli allevamenti intensivi, dall’altro l’estinzione di alcune specie animali. Senza contare naturalmente il degrado ambientale e l’inaccettabile criminalizzazione del corpo delle donne.
La mostra si propone di esplorare storie e ambienti diversi, in un intreccio di narrazioni che vanno dalle cliniche sull’aborto alle aule di tribunale, dalle paludi ai paesaggi agricoli, coinvolgendo vari esperti su tematiche d’ampio interesse: arte, attivismo, design, giurisprudenza, politica, ecologia. Un concerto creativo che si confronta sull’attualità attraverso il mezzo dell’arte.
Per l’occasione, Malkit Shoshan ha composto quattro serre. Ognuna di queste ospita un tema specifico con opere d’arte e materiale documentario. La prima entra nel vivo della questione politica, presentando il discorso sull’aborto. Nello spazio viene ripercorsa la storia dei diritti riproduttivi delle donne, condannando apertamente il movimento pro-life, che contraddice i diritti umani, invadendo la libertà personale. Tra i progetti esposti, c’è anche Abortion Drones, iniziativa di Women of Web: droni che portano pillole per l’aborto da un paese all’altro, letteralmente scavalcando i confini della legge.
Lo sguardo si allarga nella seconda serra, indagando gli effetti di estrogeni e fertilizzanti su donne, animali, agricoltura. Popolano l’ambiente gli animali gonfiabili realizzati dalla FAST -Foundation for Achieving Seamless Territory, accompagnati da The Sound of Extinction di Bernie Krause. Si tratta di un audio che registra a distanza di decenni i suoni di alcuni habitat naturali; con il passare degli anni, i suoni naturali diminuiscono drasticamente. Questa la diretta connessione con la terza serra, che riflette sul Rapporto ONU 2019 sul clima. Dopo lo sguardo retrospettivo, la mostra guarda al futuro. Dinanzi alle prospettive del disastro ambientale e dell’ingiustizia sociale, quali sono le soluzioni possibili?
Occorre sicuramente ripensare il nostro stile di vita e al nostro rapporto con la natura, attivandosi per un futuro sostenibile ed equo. Le artiste Desiree Dolron, Tabita Rezaire e Yael Bartana propongono nell’ultima serra un mondo immaginario, suggestionate dai testi di Donna Haraway. Le opere intrecciano immaginari speculativi che esaminano corpi, menti e relazioni con il mondo naturale da diverse prospettive. Spicca il documentario di Yael Bartana, intitolato come il neon che riluce nello spazio – sempre realizzato da lei – e che si interroga sulla domanda che sembra risuonare in tutta l’esposizione: What If Women Ruled The World?
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