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Luci, colori e profumi d’Africa per raccontare la storia dell’umanità senza vincoli formali
Mostre
Esiste ancora oggi nel nostro mondo contemporaneo, un universo di narrazioni leggendarie e di suoni dai colori più variegati e ritmati, che vengono tramandati oralmente da generazione in generazione, alle volte modificandosi con piccole sfumature, altre rivoluzionandosi, ma mantenendo il cuore dei significati che portano con sé. Il rischio della perdita di questo patrimonio è da sempre altissimo, nonostante questo tipo di trasmissioni sia da sempre una caratteristica particolare e riconoscibile di alcune popolazioni africane.
A contrastare il rischio di un’immensa perdita di quel patrimonio culturale appartenente alla comunità Bètè, come missione personale e volontà artistica è Frèdèric Bruly Bouabrè, artista fondatore e pilastro per l’arte contemporanea africana, che per tutta la vita dedicò la propria produzione al recupero e alla raffigurazione delle narrazioni mitiche appartenenti alle tradizioni più antiche, in seguito a quella che viene definita una “visione solare” che lo avvicinò all’arte, permettendogli di attivare parallelamente una tutela importante di questi racconti.
“Cosmogonie” è il nome della prima mostra in Sicilia al Museo Riso dell’artista ivoriano, curata da Cristina Costanzo all’interno del Museo Riso di Palermo con un progetto promosso dalla galleria 091 Art Project, che grazie al suo lavoro di ricognizione e conservazione di opere magnifiche, ha concesso un prestito importante per la costruzione di alcuni cicli che costituiscono questa prima e importante personale nel capoluogo siciliano.
Un insieme di miti riguardanti l’origine dell’universo, le modalità di conoscenza del mondo e leggende antiche in cui sono contenuti valori e tradizioni culturali, costituiscono una mostra inondata di colori forti, vibranti, che portano immediatamente in Africa, restituendo la percezione di un luogo lontano da noi nei profumi, nei suoni e nelle atmosfere climatiche. Elemento caratteristico dei disegni di Frèdèric Bruly Bouabrè è infatti il sole, che nelle singole scene che compongono ogni racconto –generando una sorta di pellicola cinematografica– si manifesta puntualmente indicando il momento del giorno in cui avviene ciò che è rappresentato. Questo, spesso posizionato centralmente e in alto, suggerisce alla percezione dell’osservatore un caldo costante e una luce in grado di accecare o di illuminare i cammini più invisibili che hanno portato l’artista all’arte. La visione solare rappresenta un segno nella vita dell’artista, qualcosa che non può essere rimosso e dimenticato, come ogni singolo elemento delle narrazioni della propria terra.
Ai racconti e agli scenari dalle forme più pure, genuine e primitive, non influenzate dai crismi commerciali dell’arte degli ultimi anni del Novecento e dei primi anni Duemila, si aggiunge l’Alphabet bètè, un’opera immensa nel numero degli elementi che la compongono, in cui l’arte torna a sostegno dell’insegnamento nella sua forma più antica, affiancando la lettura e la conoscenza, individuando l’origine dei fonemi e dei pittogrammi della lingua bètè, che Frèdèric Bruly Bouabrè ricostruisce come in un gigantesco archivio bidimensionale. In modo originale e puro l’artista ivoriano ha sempre fuso l’immagine alle parole, in una forma di necessità di conservazione del proprio patrimonio culturale, dettaglio che lo affiancava molto ad uno degli esponenti dell’arte povera italiana, Alighero Boetti, con il quale instaurò un’intensa amicizia e di cui in mostra è presente un omaggio datato 1994.
Quella di Bouabrè è la forma più pura dell’arte, intesa come processo di conoscenza universale che possa far ragionare sulla storia dell’umanità senza vincoli visuali e formali; un’arte ad oggi in sparizione e per la quale il museo non diventa esclusivamente una vetrina, bensì il fulcro critico della virtù dell’arte.