«Non avere paura Lucia» è una frase che Lucia Cantò ha impresso, nel tempo, in ogni studio in cui è entrata, e che imprime anche alla Fondazione Elpis nel mentre della sua mostra personale, Stelle che sorreggono altre stelle, a cura di Giovanni Paolin e Sara Maggioni, inaugurata lo scorso 5 ottobre e visitabile fino al prossimo 4 febbraio.
L’impianto circolare del percorso espositivo fa in qualche modo risuonare quel verso di Ada Merini in cui si scriveva «Nel cerchio di un pensiero mi riposo sognando»: come la poetessa, così anche Lucia ha una straordinaria, e sensibile, capacità di esporsi, facendosi vedere fragile. Si inizia e si finisce a contatto con la terracotta: in principio è Madre, un vaso di grandi dimensioni, composto da tre elementi assemblati in un unico equilibrio. Auto-rappresentazione e contenitore ideale di un’anima, di uno spirito, di un corpo – fin dall’antichità legato al potere trasformativo e riproduttivo della donna – Madre materializza un pensiero che nasce dalla raccolta di voci femminili, e traccia un serrato, intimo ed emotivo, dialogo tra Lucia Cantò e, appunto, sua madre: «La mia nascita. La tua nascita», «Tu sei l’unica ad aver sentito il mio respiro».
La parola scritta, sia essa appunto, nota, traccia o segno – già cardine della ricerca artistica di Lucia Cantò – funge da punteggiatura nello spazio di Stelle che sorreggono altre stelle, confondendosi tra le opere e connettendo ogni sua installazione. Madre lascia, amorevolmente, intravedere le altre due grandi installazioni pensate per il piano terra, Edilizia di un pensiero e Stellario, che iconograficamente dà il titolo all’esposizione. Gigli, Iris, Bocche di leone e Gladioli freschi – tra i quali tre fiori in bronzo patinato si mimetizzano – si susseguono, mischiandosi, quasi serialmente all’interno di un modulo industriale progettato da Studio GISTO in stretto dialogo con l’artista.
Sono elementi in forte contrasto tra loro, che con il loro dialogo restituiscono un’idea di fragilità. Le mantovane parasassi, concepite tradizionalmente per creare un ambiente di sicurezza e arginare il materiale edilizio in caduta all’interno di un cantiere, accolgono infatti fiori freschi, destinati, nel mentre della mostra, ad appassire, a cadere, a essere sostituiti per avviare un nuovo ciclo, che continuamente trasformerà la mostra in un’incessante lavoro di creazione che corrisponde alla nostra stessa vita. «C’è 1 sentimento di morte vissuto durante la trasformazione è il trattino che separa la parola ferita dalla parola miracolo WUNDE_R» scrive in una nota incorniciata Lucia Cantò a proposito di Edilizia del pensiero sospendendola a pochi passi da Stellario.
Stelle che sorreggono altre stelle, non è solo il titolo della mostra e ciò che l’occhio vede e il cuore sente di fronte all’ultima installazione, sul retro della quale ritroviamo, appunto, quel «Non avere paura Lucia». In una chiesa, durante un soggiorno a Napoli, una corona in bronzo corredata da dodici stelle ha ispirato Lucia Cantò che, per la Fondazione Elpis, ha scelto di replicare, in dimensioni differenti, sospendendo ognuno dei sette moduli dall’alto e gli uni con gli altri con dei fili di cotone. Non esiste gerarchia alcuna, solo un movimento ascensionale, verso il cielo, ispirato dalla fede di potersi sostenere e salvare a vicenda.
In un sapiente equilibro, delicato e forte al contempo, tra invisibili rapporti ciclici e piccole costellazioni di punti luminosi la sensibilità di Lucia Cantò, e insieme la nostra, emergono in una straordinaria potenza che trova espressione al piano superiore della Fondazione, dove l’artista ha scelto di allestire un laboratorio che vivrà nel corso del periodo espositivo. Un gruppo di dodici persone tra i 15 e i 65 anni, senza limitazioni di genere, professione o background, è stato selezionato tramite un’open call per realizzare un autoritratto sotto forma di vaso in terracotta. Con la collaborazione di Studio GISTO si è data forma a un vero e proprio spazio di lavoro, dove i partecipanti, su richiesta di Cantò, hanno iniziato a portare oggetti organici rappresentativi.
Qualcuno, per esempio, ha portato una noce di cocco perché «da non amante della frutta questo è l’unico frutto che da piccolo mi piaceva e mi ricorda quando al mare in Toscana mio padre non ce lo comprava in spiaggia ma poi il giorno dopo lo prendeva al mercato coperto e lo apriva a tavola con tantissimo impegno e ingegno ed era una specie di rito». Ci sono anche fotografie, che i partecipanti hanno scattato – e poi allestito su una parete – rispondendo a 7 consegne: 1) Cosa o chi vedi trasformarsi / In chi o cosa riconosci una trasformazione? 2) Dove proteggeresti una cosa a cui tieni? 3) Dove ti senti accolta? / Un luogo accogliente 4) Fatti scattare una fotografia da una persona con cui senti di avere intimità 5) Fotografati / Una fotografia che ti rappresenta 6) Fai una fotografia a qualcosa con cui identifichi una similitudine 7) Fotografa il buio. Se, come spiegano i curatori, la mostra «desidera avvicinarsi alle persone ed essere intessuta di relazioni, accogliendo chi guarda e mimando un processo vitale, grazie a un proprio ritmo interno e alla presenza di un laboratorio attivo, volto a stimolare una trasformazione», i partecipanti manifestano una grande volontà di mettersi a nudo e in discussione.
È più facile perché si è sconosciuti gli uni con gli altri, e dunque ci si sente protetti da un giudizio che altrimenti ferirebbe, o è più difficile ci si scopre senza garanzia alcuna di essere accolti in un nuovo gruppo? Come a Malamocco, dove Lucia Cantò superò la diffidenza iniziale degli abitanti entrando con loro in intimità riuscendo a prendere da loro pezzi di vita per materializzarli in forma scritta nei vasi, anche a Milano l’artista si muove lungo le prospettive del vaso come presenza significante in uno spazio e delle possibili modalità di collaborazione con una comunità temporanea.
Come «un respiro che si rinnova e segna il passare del tempo», Stelle che sorreggono altre stelle rende fragili e vulnerabili. Ma la stessa coscienza, sosteneva Louis-Ferdinand Céline, «nel caos del mondo, è una piccola luce, preziosa ma fragile». E dunque, cosa resta? Che «il tuo corpo ha procurato benevolenza al mio».
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