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A pochi giorni dalla scomparsa del Maestro, nel Palazzo Ducale di Urbino si apre l’attesa mostra che, nella sagace successione delle opere scelte e delle sale, propone un percorso attraverso il lavoro di Luciano Ventrone, e aiuta a comprenderne la grandezza e il significato intrinseco, dalla genesi alla maturità delle celebri nature morte, seguendone quello sviluppo che rende non adeguato l’aggettivo “morte”, di fronte alla vitalità che promanano.
È la prima sala a riassumere gli esordi e a rendere palese la direzione della sua ricerca: in Autoritratto in anamorfosi l’artista si ritrae riflesso, ironicamente, in una lampadina in una sorta di “luce della salvazione” – come testimonia il video in mostra – nel sofisticato gioco di contrasti che pervaderà la sua opera.
Così, sfidando una “luce antica” che squarcia di traverso un buio “dell’anima” – invincibile se non con la fede – egli parte alla volta della meta: una luce immanente, che cala dall’alto ma anche si irradia dall’interno dei soggetti, dove lo sfondo, quand’anche buio, è vinto dall’immagine illuminata e illuminante.
Di qui, una serie di opere astratte geometriche – i Modulari – forma un processo di agglomerazione di elementi fondamentali che sfociano nelle Cellule, opere di fatto astratte che paiono realistiche attraverso una sorta di “retroilluminazione” come vetrini di laboratorio: ancora la luce come vettore di indagine.
Mentre la grande Anamorfosi natura morta n°5, con la sua lunghezza, sembra mostrare in sala la direzione della ricerca, dalle Cellule si giunge all’opera Sezione cervello, dove l’ambiguità realtà-astrazione segna lo scatto definitivo verso il suo realismo “iperbolico”, che domina le nature morte.
Le sale successive mostrano la pienezza dell’opera di Ventrone che, in controtendenza rispetto al pur fecondo clima romano degli anni ’70 e ‘80, trova proprio nell’interpretazione del dettaglio realistico il salto creativo verso una verosimiglianza che si stacca dal reale e va verso quella che potremmo chiamare “realtà aumentata”.
Il termine “iperrealismo” appare inadatto: non sono riproduzioni pittoriche di scatti occasionali, ma frutti di un progetto raffinato di composizione e illuminazione dei soggetti, dove anche la collocazione (vasi, capitelli, pietre, porcellane, cesti…) diventa significante di quell’allusivo significato racchiuso nei titoli.
Quel che appare semplice da lontano – perché “strega” i sensi – è l’approdo di una combinazione sofisticatissima di intenzione e impareggiabile capacità tecnica.
Non potremo mai vedere nella realtà fisica o fotografica le cose così come Ventrone le ha pensate e realizzate, mentre siamo di fatto “risucchiati” nei meandri dei suoi dettagli poeticamente esasperati.
Se, in Anguria, il piano scavato nella profondità del frutto torna all’ambiguità astratto-realtà, una natura morta che riposa su un antico frammento di decorazione – Dialogo fantastico – rimanda all’eredità del passato rivissuta alla luce dello stravolgimento dell’invenzione.
Un cesto di aglio e cipolle – Nuove luci – diventa una sorta di “mitologica Medusa” che lavora sull’inconscio.
E l’impressionante grande quadro finale – Last Chance, un gigantesco vaso di rose – con il dominio della luce sullo sfondo scuro – il buio ormai “vinto” – rappresenta il colpo finale di fascinazione.
Allora si comprende che il Cesto di noci accanto all’ingresso della mostra, “timido” nell’apparente semplicità, svela l’intimo monito “ars est celare artem”.