Quella alla Estorick Collection di Londra, per Luigi Pericle più che una “riscoperta”, come dice il titolo della mostra, è propriamente un ritorno a casa. Almeno dal punto di vista artistico, poiché la capitale inglese è la città in cui si completa la breve e straordinaria parabola di un grande pittore che ha definitivamente ritrovato un giusto posto nella storia dell’arte dopo un oblio lungo cinquanta anni, interrotto nel 2016 quando il suo lavoro è stato in modo incredibile riscoperto con l’acquisto della residenza un tempo appartenuta all’artista, nella quale erano custoditi un grande numero di dipinti e lavori grafici inediti.
Nato nel 1916, l’artista svizzero, di origini italiane, si occupa da principio con successo di illustrazione, nel mentre studia la pittura figurativa che abbandona nel 1959, come folgorato, preferendo da quel momento l’astrazione. Espone solo tra il 1962 e il 1965, prima di rifugiarsi ad Ascona, ma senza smettere di dipingere. Dopo il 1980 si immerge totalmente nello studio, legge i mistici cristiani, i maestri orientali, si occupa di teosofia, di yoga, di zen, e dopo la scomparsa della moglie trova conforto nella meditazione, fino alla morte avvenuta nel 2001.
Dicevamo “un ritorno”: Pericle infatti a Londra, in quei folgoranti anni, lavora in modo forsennato con la Arthur Tooth & Sons Gallery e si merita una mostra personale itinerante nei musei del Regno Unito che apre nel 1965 alla York Art Gallery e prosegue a Newcastle, Hull, Bristol, Cardiff e Leicester. La Tooth è una vera istituzione: fondata nel 1842, dopo la seconda guerra mondiale, diventa centrale nelle dinamiche di accreditamento di una nuova generazione di artisti. Grazie a un raffinato connaisseur come John Peter Warren Cochrane e al coinvolgimento di critici d’arte del calibro di David Sylvester e Lawrence Alloway, al quale è attribuita l’invenzione del termine “pop art” e che diventerà curatore del Guggenheim di New York, la proposta della galleria si amplia fino a comprendere le correnti del modernismo, in special modo l’astrazione.
In questo contesto, Pericle si trova a misurarsi con artisti quali Picasso e Dubuffet, presentato da Martin Summers, un’entratura che potrebbe significare il definitivo posizionamento tra i top di quel decennio, considerando che Summers si appresta a diventate uno dei più influenti art dealer inglesi. Infine, Herbert Edward Read è, a sua volta, un tassello imprescindibile nella carriera di Pericle: poeta e critico d’arte, allievo di Jung, profondo studioso di Kandinskij, Read dedica al pittore svizzero un testo magnificandone l’opera e facendosi promotore della carriera. Per completare il quadro, basti dire che Anita Brookner, ascoltata critica d’arte, proprio nel 1962 sull’influente “The Burlington Magazine” accosta Pericle al più celebre e in quel momento celebrato Mark Tobey, in mostra alla Whitechapel Gallery, stroncando il secondo ed esaltando le opere del primo che “raggiungono alti livelli di bellezza e quel tipo di concentrazione ellittica che associamo agli aforismi dell’insegnamento zen”.
Pericle, non a caso, ha uno stile riconoscibile pur propendendo per un segno archetipale che lo accomuna a esperienze coeve, tipiche dell’astrazione informale degli anni cinquanta-sessanta, si pensi ad Hans Hartung o a Emilio Scanavino. La sua riflessione sulla materia è però assolutamente personale e rivelatrice di un sottotesto ulteriore, non appartenente a una generica ricerca spirituale in parte tipica dell’astrazione, bensì incardinato in uno stile di vita coerente con il pensiero delle filosofie orientali e della teosofia che in seguito abbraccerà completamente.
Il lavoro di Pericle si contraddistingue per una pittura assolutamente piatta, nonostante di primo acchito appaia densa di materia aggrumata. Malgrado avesse introiettato il diktat di Greenberg che imponeva l’assoluta flatness come elemento imprescindibile del modernismo, essa è tutta tesa non solo a mostrare, bensì a rivelare la profondità dell’essere. E di questa profondità, che quasi stupisce, ben si accorge il visitatore il quale può godere alla Estorick, oltre che dei documenti, di una serie di quadri su tela e masonite e di una serie di chine che esprimono in modo perfetto un repertorio altamente personale di forme geometriche e simboli mistici e totemici di grande impatto visivo e bellezza.
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