Parola, simbolo, origini, identità. Anche solo uno di questi grandi temi sarebbe stato troppo per essere indagato artisticamente nella sua completezza, eppure il geniale Jimmie Durham – origini texane ma adottato da Napoli e che Napoli ha adottato – è riuscito a unire tutte queste occasioni di riflessione nella propria originale visione. Nella retrospettiva a lui dedicata dal Museo Madre, “Jimmie Durham: humanity is not a completed project”, a cura di Kathryn Weir, è possibile seguire un percorso artistico di 50 anni attraverso 150 opere fra loro accostate mediante un percorso narrativo che supera il dato cronologico e che mira a mostrare, soprattutto, come Durham abbia contribuito in modo folgorante non solo ad arricchire il panorama artistico contemporaneo, ma anche a rompere schemi culturali imposti.
L’arte è solamente un mezzo per Jimmie Durham, al centro c’è infatti il suo attivismo politico: unendo la propria storia di nativo americano Cherokee a quella di tutte le minoranze etniche, l’artista ha partecipato a movimenti di protesta a favore dei popoli del terzo mondo, alle lotte per i diritti civili negli Stati Uniti, ha collaborato con l’American Indian Movement e ha contribuito all’integrazione, nel diritto internazionale, della Dichiarazione universale dei diritti dei popoli indigeni.
Ne La Malinche, opera realizzata fra il 1988 e il 1991, Durham assembla oggetti e materiali differenti e di diverse origini – legno, cotone, poliestere, metallo – per ricostruire una figura femminile, quella dell’amante e interprete del conquistador spagnolo Hernàn Cortés, che ebbe un ruolo centrale nella storia della sua terra, l’odierno Messico. L’opera ben rappresenta il pensiero critico dell’artista sul post-colonialismo e sulla narrazione storica assunta come ufficiale: quella imposta dagli oppressori agli oppressi.
In Durham tutto ha un fine e per questo motivo la sua opera può essere considerata in tutto “anti-contemplativa”. Ogni dettaglio va letto e decodificato e il fruitore al cospetto delle sue opere ha sempre un ruolo attivo. Nel gruppo di opere Red deer (2017), Brown bear (2017) e Musk ox (2017) l’artista combina ossa animali, parti di mobili, materiali industriali e abiti, riproducendo figure che rievocano, nelle proporzioni e nelle forme, i grandi mammiferi, lanciando una sorta di sfida al genere umano nel riconoscere e recuperare la propria dimensione animale ed istintuale.
Il gioco di parole è molto più che è un gioco: le parole orientano il pensiero, la scelta che operiamo nell’utilizzarne una dice chi siamo, da dove veniamo, il nostro ruolo nel contesto che ci circonda, ciò che pensiamo di noi stessi. Vero e proprio manifesto di critica alla società capitalista del consumo è la sequenza di apertura della mostra: le insegne scultoree Veracity e Voracity esprimono il senso del suo pensiero senza la necessità che venga aggiunto altro. Sulla versalità-fugacità-ambiguità della parola Durham ritorna nel corso dell’esposizione: nella scultura Armadillo (1991) vi è la fotografia dello stesso artista in giacca e cravatta che minaccia un altro uomo con quella che sembra essere una pistola ma che in realtà è la testa di un armadillo, in un gioco di parole visivo-linguistico.
In A dead deer (1986), la colonna vertebrale dell’animale è sostituita da un alberello, formando una vivace creatura ibrida che danza su un filo. Racoon (skunk) (1989) mostra uno specchio rotto che restituisce il volto (o maschera?) dello spettatore, quello che l’artista definisce un “trucco da quattro soldi”.
Ci mancherà Durham, per quel suo modo di essere la lingua capace di battere sempre lì, sul dente che duole. Ci mancherà perché al cospetto del suo sguardo ironico e intelligente il mondo svelava le sue carte e sembrava che tutti potessero avere la possibilità di sedere allo stesso tavolo da gioco.
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