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MAMCO di Ginevra: storia della collezione museale in sette mostre
Mostre
La grande mostra Récits de collection con opere di artisti soprattutto svizzeri ed emergenti della collezione del MAMCO – Musée d’art moderne et contemporain di Ginevra. L’esposizione, al primo piano, racconta storia, criteri e opportunità attraverso cui vive, grazie ad un oculato rapporto con i collezionisti e in generale con tutti gli attori della scena artistica ginevrina, comprese banche, premi, la fiera e, non ultimo, con gli artisti con cui si creano con il tempo dei rapporti di fiducia. Il Direttore Lionel Bovier spiega ad exibart la virtuosa invenzione del modello “buy & gift”, con il quale il collezionista compra due opere di un artista, donandone una al museo. Questo ha portato ad esempio alla collezione i tre importanti artisti americani della prima delle sette sezioni in cui si snoda la mostra, intitolata “Images Liquides”: Wade Guyton, Kelley Walker e Seth Price. La seconda sezione dedicata alla “decorazione” ripercorre la mostra del MAMCO del 2018 dedicata agli anni Settanta e Ottanta con uno splendido pezzo di Marc Camille Chaimovicz, tra gli altri artisti. La terza è dedicata alla “narrativa queer” con un esilarante quadro di Ebecho Muslimova tra Louise Bonnet e Miriam Cahn. La quarta riguarda l’atelier dell’artista americana Silvia Kolbowski, che – partito da un’acquisizione di un’opera qualche anno fa – diventa ora il più nutrito gruppo di opere dell’artista in un museo europeo. Le opere, che partono dai presupposti di Broodthaers e Asher, s’iscrivono nell’imprescindibile filone della critica istituzionale, dell’appropriazione e femminismo degli anni Ottanta. Dopo la sezione dedicata all’arte vernacolare e di seguito a quella politica (con le famose ninfee di spade di Adel Abdessemed) si approda alla settima, assegnata ai giovanissimi usciti dall’HEAD (école d’art internationale de Genève) o che hanno ricevuto premi come il Premio Culturale Manor, mostrando l’attenzione del museo per le ultime tendenze, delle quali ambisce a creare una lettura critica e aggiornata.
Tre mostre sono dedicate a figure femminili storiche, da rivalutare o consolidare, quasi a rendere giustizia di una storia dell’arte che ha privilegiato gli uomini fino a poco tempo fa.
La mostra dell’artista francese Tania Mouraud (1942), organizzata da Sophie Costes con il sostegno della galleria Ceysson&Bénétière, ci trasporta in un’altra dimensione, evocata dai disegni e modellini degli anni 1970 e 1980 delle “camere di meditazione” dell’artista; dispositivi mentali silenziosi o sonori collocati in osmosi con il paesaggio in cui si ricavano spazi ampli, solitari, regolari. Si tratta del periodo concettuale e minimalista dell’artista, che si apre in mostra con l’opera bidimensionale bianca composta da cinque elementi su dibond, Infini au carré (1967-2015) e si chiude con la ricostruzione dell’installazione con faretti che portano la temperatura a quarantacinque gradi intorno a un misterioso monolite nero, We Used to Know, 1970, già esposta al Centre Apollinaire nel 1971; la musica minimale della stanza ci parla delle sperimentazioni con sintetizzatore dei concerti dell’eclettica artista, attiva anche con fotografie e film. L’artista usa anche la scrittura in varie forme, fino ad arrivare alla pittura murale contemporanea.
Di seguito, Klára Kuchta (1941), artista svizzera di origini ungheresi che vive a Ginevra a partire dal 1970, conquistata dalla Biennale del tessuto di Losanna, in occasione della quale espone al CITAM (Centre International de la Tapisserie Ancienne et Moderne). I suoi tessuti diventano degli Ambienti Abitabili, come mostra una fotografia del 1974 esposta in mostra. Ma a partire proprio da quell’anno l’artista inizia a fare dei lavori di dimensioni modeste con capelli naturali e proprio sui capelli sviluppa inchieste sociologiche, che attirano l’attenzione di Pierre Restany che l’invita alla mostra Venerezia Revenice. Ambienti sperimentali a Palazzo Grassi a Venezia nel 1978 e dove l’artista fa la performance Biondo veneziano, presente come installazione anche in mostra, che si basa su una ricerca sulla preferenza dello stereotipo biondo (veneziano) da parte dell’uomo occidentale.
La mostra della dimenticata artista colombiana Emma Reyes (1919-2003) è stata organizzata da Stéphanie Cottin che ha esposto i quadri degli anni Ottanta e inizio Novanta conservati nel Musée d’art et d’archéologie du Périgord a Périguex, città d’adozione dell’artista. Un’artista nata e cresciuta povera e analfabeta, che si è riuscita a riscattare e che ha conosciuto l’ambiente dei muralisti messicani, Prampolini, Moravia, adottando a metà degli anni Cinquanta uno stile sincretico che mescola post-cubismo e forme precolombiane. La forza dell’artista sta nella vivacità e nello spirito animato dei suoi quadri, che – come nei quadri in mostra degli anni Ottanta- mescolano natura e ritratti o solo fiori e frutti in esilaranti e coinvolgenti primi piani. Il testo che accompagna la mostra sottolinea una precocità nell’atteggiamento dell’artista che – secondo una socialità inter-specista – abbatte qualsiasi gerarchia e fonde invece il vivente in una “lunga storia di parentela”.
La mostra dell’artista giapponese Shizuko Yoshikawa (1934-2019), curata da Julien Fronsacq, ripercorre gli anni Settanta e Ottanta, successivi al suo trasferimento in Svizzera nel 1962, dove entra nello studio di Josef Müller-Brockmann, designer e teorico della griglia, che diventerà suo compagno. Si confronta con l’ala svizzera della Scuola di Ulm, sviluppando una via personale all’”ortodossia” dell’arte concreta, basata sulla sensibilità e la leggerezza dei giochi di luce e colore sulle superfici modulari delle sue opere. La prima personale dell’artista si apre a Rapperswill nel 1974, seguita quattro anni più tardi da Tokyo e creando così un continuo ponte tra Svizzera e Giappone. L’artista ragiona sul tema della griglia interpretandolo in senso aperto e variabile e arrivando con la serie Farbschatten – quadri modulari bianchi con bordini colorati – a sottili giochi percettivi coinvolgenti gli spettatori e la luce nello spazio.
La mostra dedicata alla Collezione Glicksman è curata da Julien Fronsacq e nasce da due donazioni esclusivamente al MAMCO la prima, e condivisa con la Kunsthaus Centre d’art de Bienne la seconda. Costituita da diverse centinaia di pezzi, ha quattro nuclei principali: l’assemblaggio californiano, l’arte minimalista e concettuale, il movimento Light & Space e la Pop Art.
Hal Glicksman e la moglie Mary Ann Duganne, artista e attrice, sono stati animatori della scena artistica losangelina tra gli anni Cinquanta e Ottanta. Lui ha avuto ruoli istituzionali all’interno di musei a partire dal Pasadena Art Museum, dove è stata organizzata la prima retrospettiva di Duchamp nel 1963 ed ha organizzato la prima esposizione dedicata all’assemblage californiano. La mostra infatti si apre proprio con opere dei “maledetti” della beat Generation Georges Herms, Wallace Berman e Bruce Conner… e si conclude con opere su carta di Carl Andre, John Baldessarri, Bruce Nauman e Michael Asher, del quale ha organizzato la famosa mostra nella galleria del Pomona College of Art, importante incunabolo dello site-specific e della critica istituzionale.
La settima mostra è dedicata a due opere di Alighiero Boetti: lo spettacolare disegno lungo 20 metri, Estate 1970, e Catasta, 1992 (1967) in fibra di cemento.