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Per le pareti ha voluto un colore tra il lavanda e il rosa, scelto per “dare risalto al colore della ceramica”. Effettivamente, Mariana Castillo Deball (Città del Messico, 1975) non ha sbagliato: il bianco panna di quei “vasi” (attenzione al virgolettato, presto capirete perché) spicca bene, assieme al verde delle striature da cui sono decorati. Striature che, a loro volta, sono segni vagamente xilografici, somiglianti a quelli delle tavolette in cera a parete dalle immagini “vedo non vedo”. Sono più o meno piccole, tonde e nere. Nere, di nuovo “a loro volta”, come la spessa corda che sostiene tutta l’istallazione aerea progettata dall’artista.
In poche righe abbiamo tirato su una descrizione della personale di Castillo Deball che sembra un testo di Branduardi. Una concatenazione stile “Alla fiera dell’est”, per capirci. Che può sembrare un paragone azzardato, però utile a dare una prima infarinatura della coerenza narrativa con cui l’artista ha concatenato ogni componente di “In a convex mirror”.
Una personale antigravitazionale (questo termine non dimenticatelo, servirà più avanti), ispirata a Parmigianino, più nello specifico alla distorsione (fisica e concettuale) del suo Autoritratto entro uno specchio convesso. Che diventa, appunto, il convex mirror di Castillo Deball, spazio esente da qualsiasi presunzione di oggettualità. Mariana, ad esempio, fa scultura asserendo di lavorare «Con il vuoto, non con il pieno», in un’ottica che, essendo intrinsecamente alla Arturo Martini nel mettere in dubbio l’oggettiva fisicità del linguaggio plastico, rende il suo lavoro anti-scultoreo di default. An-oggettuale, perché Castillo Deball è infatti istigatrice di un’azione che, demoltiplicando il valore della scultura in quanto “oggetto”, utilizza la percezione della materia come un trampolino per lanciarsi oltre la materia stessa.
Castillo Deball e la “pelle degli oggetti”
Ricapitolando: nel progetto di Castillo Deball le sculture sono tutte elementi passanti. Tutte collegate da metri di cordone nero, «Un pezzo unico» come ci fa notare lei stessa. Una ragnatela compatta, fil noir volumetrico di un’installazione in cui ogni ceramica è oggetto autosufficiente, fuori da ogni regola cartesiana. Dove il vuoto ha senso funzionale, il pieno disfunzionale.
Vuoto e pieno. Il primo genera il secondo, laddove il secondo è – di converso – conseguenza del primo. Tra vuoto e pieno c’è tutto il lavoro plastico dell’artista, quella «Pelle degli oggetti» a cui Mariana dice di dedicarsi. Che è effetto di una sottrazione, di una detrazione che va a corrodere prima la praticità oggettuale dell’elemento “vaso”; poi, martinianamente, il senso comune di scultura. Quest’ultima, allora, potrà attuare la sua rivoluzione copernicana e abbandonare le regole della gravità, fluttuando sospesa come nulla fosse. Non impedendoti di sbatterci la testa contro (rischio reale), all’interno di uno specchio convesso dove la dinamica di relazione col singolo essere umano è totalmente riplasmata. Perché niente piedistalli, con al massimo le due estremità del cordone arrotolate a segnare l’unico contatto col terreno, significa niente solite prospettive o ruoli preimpostati. E alla fine devi ammetterlo: non è più la scultura a riempire il tuo spazio, ma tu il suo.