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Mario Velocci Scultore nella Basilica di San Celso
Mostre
Il suono si muove nello spazio di Mario Velocci Scultore sotto forma di vibrazioni, propagandosi in tutte le direzioni e variando di intensità a seconda dell’agire empirico ed esperienziale del visitatore, invitato a muoversi e a intervenire annullando la tradizionale distanza dall’opera.
La suggestiva Basilica di San Celso nel cuore di Milano, risalente al X secolo e recentemente restaurata per essere adibita a spazio dedicato ad attività culturali, accoglie armoniosamente, per mano dell’Architetto Giuseppe Chigiotti che ha progettato l’allestimento, una selezione di opere di Mario Velocci curata da Giorgio Verzotti.
La mostra, organizzata dalla Fondazione Mastrantoni con il supporto dell’Antica Tenuta Palombo, realizzata in collaborazione con Isorropia Homegallery e visitabile fino al 9 agosto, prende le mosse dall’esterno della Basilica, in un giardino protetto da una cancellata in ferro battuto e delimitato ai lati da pareti scandite da lesene e archi adorni di capitelli e sculture romaniche e rinascimentali. Colonna Sonora (2023), la scultura in acciaio inox e corten alta sei metri, è emblematica dell’esposizione e del disegno di Mario Velocci, sempre in equilibrio tra la materia e l’impalpabile, il concreto e l’eleganza, il flessibile e l’indomito. Diametralmente, e opposta, Uccelli in morsa (1969), in ferro e legno, fonde – nella presenza di elementi figurali, precisamente il becco degli uccelli – da dove viene e in che direzione è andato Velocci.
Dagli anni ’70, e tutt’ora, Mario Velocci non ha mai previsto lo sviluppo volumetrico dell’opera tridimensionale, in favore piuttosto della sua riduzione a strutture portanti essenziali ed elementi quali aste vibratili e filiformi, che nello spazio aperto o al tocco dell’osservatore risuonano. Pur che l’artista si sia sempre tenuto lontano da gruppi e tendenze per realizzare sculture singolari, non si può prescindere da un’evoluzione che ha seguito una linea di progressive riduzioni e rinunce di ciò che sembrava appartenere indissolubilmente al significato di arte che si era costruito in Occidente.
Dopo la rinuncia al naturalismo e alla mimesi, alla prospettiva, al passato, alla realtà e alla forma che ha caratterizzato l’arte nel suo avvicinamento agli anni ’60, è impossibile non notare come anche la ricerca di Mario Velocci si inscriva nel segno «del togliere», per usare le parole del curatore Verzotti.
Esemplare, oltre che monumentale, traduzione visiva del lavorio costante di riduzione del volume del ferro fino all’utilizzo di tondini, dall’aspetto dinamico per via di un andamento curvilineo sempre più impresso, è Libro Sonoro, una scultura del 1986 in ferro e acciaio, lunga più di 7 metri e posta al centro della Basilica. La dimensione non è l’unico elemento di stupore, il vero incanto viene dalla possibilità di camminare sulle estremità di tutti questi tondini – tra i quali spicca quello rosso, il becco, sineoddche di Uccelli in morsa – e ancor più dalla sonorità che vibra nello spazio. Una sonorità che appartiene alla materia e perdura in relazione all’intervento del visitatore, forse non più abituato nell’epoca dell’elettronica.
L’immagine del libro, declinata anche nella forma della pagina, sia in foggia scultorea che su carta, ricorre nella mostra insieme alla sonorità vibrante, provocata o evocata (Spazio Sonoro del 2017 in acciaio, ferro, corten sull’altare e Partitura sonora del 2016 in cartone e acciaio nella navata destra ne sono esempi) mettendo in risalto la doppia natura delle opere della vita di Mario Velocci, sintesi perfetta tra la fisicità, tangibile che contiene, e l’immaterialità, che si propaga come onde, della materia.
Sottrarre (volume) per aggiungere (esperienza) è possibile, ancora oggi. Nel suo disegno artistico Mario Velocci riduce lo spazio alla linea e fa vibrare il suono nelle sue mani come materia viva, solida, da modellare al pari della cera o del marmo. L’invito alla concentrazione non è altro che la melodia con cui egli ci fa percepire tutto questo e anche molte altre dimensioni, come quella dei differenti riverberi ed echi che si fondono in giochi di geometrie sonore derivate direttamente dall’architettura dei luoghi in cui lui, e noi, insieme ci veniamo a trovare.