“Marisa e Mario Merz. La punta della matita può eseguire un sorpasso di coscienza” in corso alla Fondazione Merz e curata da Mariano Boggia, «è un progetto espositivo inedito che illustra il loro lavoro nella particolare luce del nostro tempo. Per la prima volta negli spazi della Fondazione l’opera di Marisa e quella di Mario Merz si incontrano in un percorso unitario, per ricreare la dimensione dialogica, lo scambio intenso e profondo sulle reciproche pratiche che non ha mai annullato i punti di vista individuali. […] Il titolo della mostra è una esplicita citazione di una frase di Mario Merz che riconduce al terreno comune della pratica artistica come punto di inizio per la prefigurazione di mondi sconosciuti», ha spiegato l’istituzione.
Dallo scorso 2 novembre nel percorso espositivo sono state integrate tre opere di Richard Long, Giulio Paolini e Remo Salvadori, «che danno origine a triangolazioni di sguardi e di sensi e si inseriscono in maniera discreta nel dialogo presente negli ambienti della mostra, occupando spazi che erano stati lasciati liberi in previsione di questo appuntamento», ha proseguito la Fondazione.
«Viene dato spazio alla pratica quotidiana del lavoro continuo, infinito di Marisa e Mario Merz, caratteristica evidente in tutta la loro vita, che si manifesta, in mostra, anche nella vicinanza delle loro opere. Loro sono sempre stati uno accanto all’altro, hanno lavorato insieme, ma hanno realizzato lavori diversissimi, senza che mai uno prendesse il sopravvento sull’altro. Si sono accuditi vicendevolmente lavorando negli stessi spazi, hanno usato il tempo per tornare – individualmente – sempre sugli stessi temi peculiari di ciascuno. All’inizio della mostra, ad esempio, si vedono delle carte degli ultimi anni di vita di Mario, i temi sono quelli che ha portato avanti nei decenni, come i semi, le foglie, l’erbario dei primi lavori degli anni Cinquanta e Sessanta, precedenti agli oggetti e ai neon.
In generale mi è sembrato di poter individuare una radice dei loro interessi che si è manifestata in tutto lo sviluppo della loro arte, in cui è quasi sottesa una concezione di un tempo che si fa presente infinito, non ci sono un prima, un dopo e un domani, ma un continuo di attenzione a se stessi e alla realtà passando attraverso i propri interessi, sia di Marisa che di Mario. In mostra questo si ritrova, ad esempio, nelle tavole di Mario, e negli studi di Marisa sul volto, composti non solo di visi diversi, ma soprattutto da tecniche diverse. Qui emerge anche un’altra caratteristica di Marisa e di Mario: hanno costantemente messo in gioco le loro capacità, non hanno mai individuato una tecnica unica, c’è stata invece la curiosità verso un risultato ogni volta diverso all’interno però di un interesse che è rimasto costante».
«Il tema della mostra è il titolo, preso da una frase di Mario, “la punta della matita può eseguire un sorpasso di coscienza”, dove secondo me la parole importante è “può”, perché si tratta sempre di un atteggiamento in potenza, tutto può avvenire: “un sorpasso della coscienza” vuol dire “andare oltre”, non è detto che debba accadere, ma che esiste la possibilità. Marisa e Mario hanno saputo essere, nello stesso momento, tradizione e innovazione per se stessi e mettersi in gioco faceva parte della loro libertà. Una libertà che Mario ha mantenuto anche nei confronti dei propri lavori, nel farli, presentarli, prenderli, riproporli, ripresentarli modificandoli, questo gli ha permesso di privilegiare il fatto di presentare il suo lavoro, che fosse vecchio o nuovo».
«Arrivo a questa mostra dopo una vita passata con Marisa e Mario: li ho conosciuti tanti anni fa, ho collaborato con Mario per 19 anni. Non posso dire di essere stato l’assistente di Marisa perché lei non aveva bisogno di assistenti, ma l’ho seguita negli appuntamenti successivi, quando ha ripreso ad accettare inviti alle mostre. Ho avuto una lunga consuetudine più che con il lavoro in studio con il presentare le opere in pubblico. Il mio lavoro è stato accompagnarli nella preparazione delle mostre, e in questa mostra, le scelte di allestimento vogliono essere un suggerimento su come trattare i lavori di Marisa e Mario. Mi sono preso la libertà, essendo tutte opere della collezione, di gestirle come se fossero opere appena realizzate in studio, come facevamo con Mario quando appendevamo una carta appena terminata sul muro, con quattro gancetti, e lì rimaneva, in un modo provvisorio, aperto a una continua possibilità di modificazione. Certo, presentare queste carte così, quasi indifese, va contro ogni necessità di tipo conservativo come possono avere i musei, è un azzardo che la Fondazione può fare, sapendo che l’arte di Marisa e Mario si difende da sola».
«Il percorso vuole anche suggerire come le opere possono essere allestite. La grande opera di Mario, ad esempio, è stata scelta perché è difficile da montare, non sempre trova la sua collocazione giusta. Parte del mio lavoro è non solo mantenere questi aggregati di materiali, ma anche preservarli nella loro forma di senso, che non è semplice. I basamenti su cui poggiano le sculture di Marisa, invece, erano nel magazzino, sono quelli della sua sala alla Biennale di Venezia del 1988 e da allora non sono più stati utilizzati. Non avevamo le stesse teste per il nuovo allestimento, però ne ricordo la tipologia: non erano le teste graziose, ma quelle quasi maschere e abbiamo lavorato in questa direzione. Nel percorso espositivo questi due spazi dedicati a ciascun artista creano una circolarità e la sensazione di entrare nello studio o nella casa degli artisti. Tra le opere, più che un dialogo, c’è un sommesso chiacchiericcio di piccole cose, è un contrappunto tra piccoli sguardi, che suggerisce una visione fatta di un continuo rimando tra particolare e insieme».
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