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Mattia Bosco: il racconto di Korai nel Tempio di Venere e Roma
Mostre
Dal greco κόρη, “ragazza”, Korai di Mattia Bosco prende vita da 12 sculture in marmo che suscitano la sensazione di un rimosso che riaffiora, di antichi abitanti che tornano con sembianze diverse, rivelando però, dal loro modo di abitare lo spazio, di essere di casa.
Nella cella della dea Roma, incarnazione della Città Eterna, sono disposte in cerchio come danzatrici 9 sculture della serie Korai che Bosco immagina «celebrare, come vestali nel tempio, il culto più antico del mondo: il culto della materia di cui è fatto il mondo stesso, la stessa materia che costituisce anche noi». A grandezza umana e realizzate in marmi diversi ma con il medesimo impianto formale, queste sculture mostrano l’azione del tempo sulle stratificazioni della pietra. Nella cella di Venere, divinità dell’amore e della bellezza, progenitrice della Gens Iulia, sono invece esposte due Sezione Auree e lo Stonegate, scavato nella pietra rappresenta un confine, una porta d’ingresso, un passaggio verso un’altra dimensione che collega il qui e l’altrove, il passato e il presente.
Del progetto, visitabile fino al prossimo 14 gennaio, curato da Daniele Fortuna e promosso dal Parco archeologico del Colosseo, dalla galleria d’arte Atipografia, diretta da Elena dal Molin, e da ArtVerona, ne parliamo con Mattia Bosco.
I marmi, un tempo colonne, pavimenti intarsiati e rivestimenti parietali, ritornano come sculture. Che valore hai dato ai segni e alle memorie delle precedenti generazioni e in che modo, e con quali pensieri, hai dato forma a questa continuità temporale?
«Confrontandomi con gli spazi del Tempio di Venere e Roma, ho intuito che la chiave d’accesso per entrare in relazione con quel luogo andava ricercata in strati più profondi rispetto alla ricchezza o scarsità di memorie. Un approccio fondato sulla memoria storica avrebbe divaricato ancora di più la distanza tra noi e l’umanità perduta che lo ha prodotto. Un approccio opposto, fondato sul rifiuto del passato, sarebbe stato rigettato come un corpo estraneo rendendo ancora più grande e sconcertante la forza di quelle rovine. Che cos’è un tempio per noi? Cosa sono per noi le divinità a cui quel tempio è intitolato? Ci pare sufficiente dire che Venere, traduzione latina della greca Afrodite, è la divinità della bellezza. Spieghiamo un mistero con un altro mistero e ci pare di aver risposto. Per superare questa discontinuità temporale, l’ho ricondotta a una continuità materiale, riconfigurando gli antichi marmi in nuove forme».
Mi colpisce che tu dica che le sculture rivelano, dal loro modo di abitare lo spazio, di essere di casa. Penso alle sculture di Korai, che mostrano l’azione del tempo, e alle Sezioni Auree, tempo allo stato solido. Qual è il significato che dai al tempo, che posto trova all’interno della tua ricerca e come lo lavori?
«La pietra per me è tempo allo stato solido. Il nostro pianeta ha circa 4,5 miliardi di anni, i minerali più antichi rinvenuti in Australia datano 4,4 miliardi di anni. Il marmo di Carrara ha 190 milioni di anni. Sono tempi impossibili da immaginare, siamo nel sublime matematico di Kant. Mettere le mani su una pietra significa toccare qualcosa di originario, di inappropriabile, e scolpirla significa partecipare alla sua infinita metamorfosi, diventare di fatto una delle forze che nel corso della sua sterminata vita minerale incontra. Per questo la scultura per me è un atto collaborativo e partecipativo, non creativo. Nella scultura sento agire la pulsione verso l’inorganico di cui parla Freud in “Al di là del principio di piacere”, questa nostalgia minerale che attraversa tutta la vita organica. Un inconfessabile desiderio di tornare a casa, l’Odissea radicale di un Ulisse impossibile».
Protagonisti di Korai, i marmi riaffiorano con le sembianze – pur diverse – di vecchi abitanti. Tu stesso hai affermato, a proposito delle 9 sculture dell’omonima serie: «Le immagino celebrare, come vestali nel tempio, il culto più antico del mondo: il culto della materia di cui è fatto il mondo stesso, la stessa materia che costituisce anche noi». Che rapporto hai con le tue sculture e come abitano il nostro spazio-tempo?
«Ho un rapporto partecipativo e operativo, aiuto le pietre a partorire sé stesse. Una buona scultura è l’esito di una partenogenesi, non c’è padre, non c’è fecondazione. La mia parte è quella della levatrice, la gioia che provo è quella di aver assistito e facilitato una nascita. Meno dura il parto meglio è, significa che la scultura era pronta a venire al mondo, che era orientata nel modo migliore. Nessun travaglio creativo. Le sculture nascono adulte e autonome. Capisco quando una scultura è compiuta quando comincia a chiudersi e a diventare respingente, fino a quando di fatto mi espelle, rifiutandomi. Da lì in poi risulto l’autore ma le posso solo incontrare, osservare, o ignorare, come chiunque altro. Mi auguro che abbiano una buona vita, avendole viste nascere. Come potrei non amarle? Ma mi auguro che possano incontrare altri sguardi e mostrare qualcosa ad altri, come hanno fatto con me, continuando ad abitare lo spazio-tempo, nostro, e altrui».
Qui e altrove, passato e presente. Al di là del racconto della mostra, quale nome, o quale spiegazione dai per comprendere la portata estetica, la natura e la qualità dei processi coinvolti nella tua opera?
«La parola spiegazione impedisce più di quanto favorisca un accesso alle opere. Induce a credere che vi sia un’idea, che starebbe nella testa dell’artista prima come progetto, e poi come vera chiave di lettura. Per me questo è un grande equivoco, che sacrifica la centralità dell’opera per garantire l’io dell’artista, la sua creatività. L’opera rimanda all’artista: chiediamo dunque a lui. Se chiedete, come state facendo, a me, sono costretto a deludervi, forse, perché nella mia testa, prima e dopo, c’è ben poco. L’idea per me è solo l’innesco di un processo evolutivo. È la materia l’evento della forma, è lì e lì soltanto che l’idea diventa ciò che è. È la materia a rendere individuale e reale un’idea. E l’idea deve accettare di essere la scintilla che muore nel fuoco che accende. Se non vogliamo limitare proprio la portata estetica delle opere dobbiamo riconoscere la loro autonomia, la loro capacità di parlare da sé. Le opere sono presenze, che si offrono al nostro sguardo perché le sposi, sono disponibili, non sono dispositivi. Non comandano, invitano. Non si spiegano, si dispiegano. Sono erotiche, non dispotiche».
Un’ultima cosa ancora. Nella tua pratica tieni molto alla sostenibilità…
«Mi sono accorto che il mio lavoro aveva a che fare con questioni profonde legate ai temi della sostenibilità, riflettendo su tutt’altro, semplicemente inoltrandomi nel mio cammino. Ho sempre usato pietre scelte tra gli scarti dell’attività estrattiva, non per essere ecologico, ma perché vedevo in quelle pietre del materiale straordinario per il mio lavoro di scultura, e dove gli altri vedevano solo massi informi, detriti da smaltire, io vedevo delle pietre piene di forma, di potenziale. Quindi mi sono accorto che è solo il modo in cui si guardano le cose, a tracciare la possibilità di un cambio di rotta. Se l’ipotesi dell’Antropocene, come pare, è confermata, allora la distinzione tra uomo e natura cade. L’uomo è diventato una forza geologica, la sua presenza è rilevabile negli strati rocciosi. Eppure, è proprio il fatto che l’uomo ha agito come se la natura fosse altro, qualcosa di cui disporre, ad averci portato qui, nell’Antropocene, a interrogarci sulla sostenibilità di questo uso del mondo».