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Mediterraneo transdisciplinare: tre artisti in mostra da Ocean Space, Venezia
Mostre
Da Emily Dickinson a Ungaretti, vi sono versi conclusivi che aiutano una poesia a non finire; “Thus waves come in pairs”, che chiosa il primo componimento del poema Sea and Fog di Etel Adnan, è parte di questi. Nel suo esaurirsi, genera una pausa lunga il tempo di un respiro profondo, come accade di fronte al mare. Barbara Casavecchia, alla guida del terzo ciclo della fellowship curatoriale “The Current” (2021-23), cluster di pratiche transdisciplinari incentrate sui Mediterranei, ha scelto questo verso per intitolare la mostra allestita presso la ex chiesa veneziana di San Lorenzo. Nell’edificio ha sede Ocean Space, spazio dedicato alla ricerca artistica contemporanea in cui TBA21–Academy (Thyssen-Bornemisza) promuove un rapporto più profondo con l’oceano condividendo con il pubblico pratiche e ricerche condotte nel segno di un pensiero plurale.
«Ci sono molti Mediterranei: quello geografico, quello storico, quello filosofico…». Simone Fattal (Damasco 1942) riesce a dare forma plastica a questa meditazione, ancora una volta di Adnan, sua compagna di vita fino alla recente scomparsa. Nell’ala est si apre Sempre il mare, uomo libero, amerai!, installazione battezzata da Fattal come l’omonima poesia di Baudelaire, il quale colse, del mare e dell’uomo, l’eterna fraternità e l’implacabile antagonismo. Due nicchie vuote nel grande altare barocco ospitano l’esortazione iscritta sul frontone del tempio delfico di Apollo: γνῶθι σεαυτόν (gnōthi seautón, conosci te stesso), e un oracolare giovane in terracotta. Un frammento del Contrasto della Zerbitana, prima testimonianza in lingua franca a noi nota – un amalgama di francese, arabo, italiano e spagnolo – richiama la storia coloniale del Mediterraneo per mezzo del suo “esperanto”, riportato su sfere perlacee in vetro di Murano.
Sulla tékhne che nasce dall’osservazione della natura ci invita a riflettere la coppia scultorea di Máyya e Ghaylān, amanti celebrati dalla poesia araba classica, in gara di velocità per solcare con le loro flottiglie il mare. Dei due, il secondo guardò alla morfologia matematica delle ali di libellula per progettare le proprie imbarcazioni: aveva inventato le vele e trovato nel vento il proprio decisivo alleato.
Alla percezione temporale di un intreccio di culture millenario si sostituisce quella dell’attesa di una festante insurrezione di animali metamorfici. L’opera ambientale Lunar Ensemble for Uprising Seas di Petrit Halilaj (Kosovo 1986) & Álvaro Urbano (Madrid 1983), ispirata alla canzone popolare spagnola ¡Ay mi pescadito! in cui dei pesciolini evolvono “con ali per volare”, dischiude un ecosistema immaginifico che da un lato è figlio della distanza geografica dal mare dei due artisti – commenta Audrey Teichmann, curatrice del co-committente Audemars Piguet Contemporary – dall’altro rivela un senso d’intimità universale verso l’oceano. Come a dire che esso agisca come archetipo ancor prima che come fenomeno o datità.
Le silhouettes metalliche di razze, pesci martello, meduse e altre creature, ora funzionanti come fiati e percussioni, ora dotate di campane tubolari e carillon, sono state condotte dal sagrato all’interno della chiesa e “attivate” da performer e musicisti nella giornata inaugurale. In un crescendo cinetico-sonoro una surreale fauna ha colonizzato l’ala ovest, per conflagrare in un maestoso e selvaggio climax di voci e pseudo-ottoni, momento finale di una composizione il cui esito in parte imponderabile – si ricordi la peculiare natura degli “strumenti musicali” – riflette la complessità intrinseca nel raggiungimento di una condizione di armonia, sia essa interspecifica o transculturale. In questa inesausta ricerca occorre «Imparare dall’aridità per controbilanciare l’aridità» – suggerisce Casavecchia muovendo dalle caratteristiche ambientali della laguna veneziana che è, sorprendentemente, tra i luoghi aridi del mondo per la mancanza di acqua dolce – per poter meglio comprendere gli attuali orizzonti di esistenza o intravederne di impensati.