Entrando nella sala di La Siringe, spazio indipendente di Palermo, colma di umidità estiva, percepiamo un odore particolare: quello dei tessuti che l’artista dispone nello spazio e che hanno una storia ventennale di stasi dentro un magazzino di Biella: Giusi Sferruggia ha recuperato questi tessuti e li ha pigmentati. Come esprime benissimo nell’ottimo pensiero dell’opera la curatrice Alessia Coppolino, «Immergendoli nel colore, l’artista impregna i tessuti dei pigmenti, che si insinuano e invadono ogni fibra. Una tinta rispettosa, che non copre ma anzi accentua i sedimenti del tempo che affiora, come a voler dare memoria degli anni vissuti».
Impressionante è la cura dei minimi dettagli dell’istallazione. La violenza applicata sull’estensione o sul restringimento dei tessuti crea un cortocircuito d’esperienza guardando invece la compostezza dei chiodi a muro finemente coperti dalla stoffa, i fili tirati che cadono elegantemente a piombo, risuonando con i colori delle pareti stratificate de La Siringe. Come in un respiro, come Coppolino sottolinea, Sferruggia dipinge lo spazio con tinte pastello, quasi ad addolcire la trazione del materiale, la sua irrequietezza dentro cui ci addentriamo, passando accanto, facendo attenzione a non urtare col corpo questo corpo altro che respira, ci parla, si disegna, disegna lo spazio, ridipinge cromaticamente la sala.
Indipendentemente dall’intenzione a-politica dell’artista e dall’interpretazione della curatrice, in un panorama palermitano in cui molti lavori si basano ancora sul concetto di “verità ” e su una scuola di pensieri direi heideggeriana, il fatto che un’artista donna di Palermo riesca a creare delle opere che parlano al corpo e con cui si deve interagire con il corpo è una scossa a un filone pittorico cittadino un po’ a tratti stagnante.
Sferruggia si fa pittura immergendo mani e piedi nell’acqua colorata che servirà a tingere i suoi tessuti: pesta, stringe, strizza, tocca il materiale. Il tessuto quasi come una protesi di sé ma, al contrario di artiste come Rebecca Horn, che usano le proprie protesi come estensione del corpo stesso, Sferruggia ne crea uno altro, che respira e vive di questa tensione, di questa libertà , di questo rilascio d’aria dopo il trattenimento.
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