L’atto espositivo di Geography of Looking di Milica Tomić con Ana Bezić, a cura di Zasha Colah e Francesca Verga, si riassume in una sezione trasversale della vasca di flottazione, un sistema di filtrazione meccanica composto da serbatoi, tubi, setacci, terra – prelevata da località dell’Alto Adige – e acqua, continuamente in circolazione all’interno del sistema chiuso.
Premettendo la tesi foucaultiana secondo cui i sistemi di pensiero e conoscenza seguono regole che operano in modo inconscio sui singoli soggetti per definire un sistema di possibilità concettuali che determinano i confini stessi del pensiero e usano la lingua secondo un dato dominio e in relazione a un dato periodo storico, Milica Tomić setaccia il suolo, esplorando ciò che non si vede della materia, che esiste, non esiste o può essere immaginato, per arrivare a rivelare come il tempo atmosferico, la foresta, l’agricoltura, i regolamenti di proprietà, la vita quotidiana, il lavoro, la classe e l’etnia siano continuamente sovrapposti l’uno all’altro per formare un luogo e inscritti nei vari strati storici e geografici del suolo.
Attraverso il sistema di filtrazione – centrale nello spazio di Ar/Ge Kunst e cuore di Geography of Looking – Milica Tomić analizza terreno che ha recuperato da Castelrotto, un piccolo comune della provincia di Bolzano non distante dalla città, e dalla frazione di Tagusa, dove esiste, dal 2005, un Museo della Scuola – che nel 1933 fu edificata e definitivamente chiusa. Da qui Tomić, che concentra il suo interesse che concentra il suo interesse sui metodi d’indagine di questioni legate ai territori, alla violenza politica, alla resistenza e all’amnesia sociale, ha prelevato, scavando oltre il primo strato di suolo, terra e fango da filtrare come materia biologica che favorisce la coagulazione di strati di potere, desiderio e conoscenza, a ogni flottazione – diverse sono quelle previste e che si attivano in corso di mostra.
Intorno alla macchina, che ricorda il sistema di vasche di flottazione di Ankara ideato nel sito archeologico di Can Hasan in Turchia, sono allestiti blocchi di giornali che stimolano la riflessione su cosa resiste all’identificazione, come le sofferenze della guerre e l’orrore della morti meno mediatiche, come quelle che affliggono il Sudan o la Birmania, per citarne alcune, che non si stampano nella mente attraverso immagini e non lasciano, dunque, un’impronta ostinata. A proposito di identificazione, nella sua macchina di flottazione Milica Tomić aggiunge una finestra che funge da faro per illuminare il materiale che sfugge, per scarto, al processo di identificazione invalidando quella lettura che – inevitabilmente – viene premessa a prescindere in un’analisi.
Il percorso espositivo prosegue con un allestimento che ha tutte le sembianza di un vero e proprio ecosistema all’interno del quale sono repertati ritrovamenti, da quelli più antichi (ossa) a quelli più recenti (palette da gelato in plastica), libri – sovente ricorre il nome di Michel Foucault – e suggestioni proprie dell’archeologia post processuale, il movimento che ebbe origine nel Regno Unito tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, pioniere di archeologi come Ian Hodder (con cui proprio Ana Bezić ha studiato), Daniel Miller, Christopher Tilley e Peter Ucko, che enfatizza la soggettività delle interpretazioni archeologiche. Questo approccio è diametralmente opposto a quello dei processualisti, che credevano che il metodo scientifico dovesse e potesse applicarsi alle indagini archeologiche, consentendo quindi agli archeologi di presentare dichiarazioni oggettive sulle società passate basate sulle prove. L’archeologia post-processuale,mette in dubbio questa posizione, enfatizzando invece che l’archeologia è soggettiva e non oggettiva, e che la verità accertata dalla documentazione archeologica è spesso relativo al punto di vista dell’archeologo responsabile della dissotazione e della presentazione dei dati.
Se in termini espositivi è un quadro, che Milica Tomić ha realizzato traducendo in colori la densità e la durata di tutti i governi che si sono successi a Bolzano dall’impero romano a oggi, a chiudere Geography of Looking, da un punto di vista più riflessivo è The Mushroom at the End of the World. On the Possibility of Life in Capitalist Ruins di Anna Lowenhaupt Tsing – ad avvicinare la portata estetica alla natura storica e attuale della mostra. Perché? Perché i funghi, e in particolare il matsutake – che viene in mente quando si pensa a Hiroshima e Fukushima – cresce dove e quando vuole, anche sui terreni in cui le attività agricole e industriali hanno causato mutamenti irreversibili. Ecco allora che se il corpo umano raggiunge presto una forma determinata, i funghi continuano a crescere e a cambiare forma lungo l’arco della loro vita, a seconda dell’ambiente e degli incontri. I tentativi di coltivazione, la raccolta, la comunità di rifugiati dell’Indocina: non ci sarebbe matsutake senza di loro, come non ci sarebbe il terreno che Milica Tomić senza le connessioni, globali che agiamo o subiamo, che investono le cause ambientali.
Così si apre uno spazio reale per l’ignoto.
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