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Pittura, disegno, fotografia, scultura, video e performance, linguaggi in dialogo per rielaborare una rottura, rigenerarla attraverso i processi dell’arte contemporanea. Sono alcune delle assonanze che riverberano negli gli spazi della sede di Montoro12 Gallery a Bruxelles, tra le opere di Serena Fineschi e Loredana Longo. L’occasione è “Break”, mostra a cura di Marina Dacci che intreccia le ricerche delle due artiste in un percorso sfaccettato, eterogeneo ma anche coeso, tra materiali, forme, concetti, parole, corpi. Un’occasione anche per far conoscere il lavoro di due artiste italiane a Bruxelles. A inizio settembre, infatti, l’Ambasciata Italiana ha ospitato una presentazione della mostra, durante la quale Fineschi e Longo hanno avuto modo di introdurre il pubblico al loro lavoro. Sempre all’Ambasciata sono state installate due opere e, successivamente, le artiste hanno organizzato anche una cena performativa, andata in scena da Montoro12 e incentrata sul rapporto tra arte e potere.
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«Nelle opere di Fineschi le tensioni si trasformano in spinte propulsive verso il futuro a volte di sapore sentimentale a volte lucidamente ironiche, in quelle di Loredana Longo l’esplosione/implosione delle relazioni e dei materiali diviene gesto liberatorio che da vita a nuovi inizi», spiega Dacci, che a Bruxelles, nel 2021, presso La Centrale for Contemporary Art, aveva curato, insieme a Carine Fol, un’altra mostra, “La vita Materiale”, a cui parteciparono anche le stesse Longo e Fineschi. «Entrambe le ricerche ci portano dentro al “lato oscuro” elaborato, purificato e rimesso in gioco nella costruzione dell’opera. Dolore, vergogna, rabbia e paura sono amplificatori di sensazioni; il dolore aiuta a fermarsi, a prendere coscienza. Fermarsi per ascoltare, per ascoltarsi, per ridefinire le regole del gioco. Partogenesi coraggiose».
In esposizione da Montoro12, opere come Spiriti, Ingannare l’attesa, Primavera dell’impazienza e Forme di impazienza, Creative execution, Crashing the box, mettono in evidenza la relazione tra il pensiero, l’atto, l’esecuzione, lasciando emergere quelle “qualità” nascoste, tanto intime quanto di superficie, della materia, come lo scontro o la cedevolezza, il decadimento o la rottura. «Le opere esposte hanno al loro interno una agentività, una presa speciale su chi guarda. Le opere sono osservate e, a loro volta, osservano, si porgono e interrogano. Agiscono, slittando verso lo spettatore, testimoniando percorsi individuali che diventano così patrimonio condiviso di sentimenti e riflessioni anche sociali», continua Dacci.
Dalla materia si forma dunque, al negativo o al positivo, anche il corpo, «La pelle diviene letteralmente memoria dell’azione. Accompagna, il gesto che imprime, distrugge, decostruisce e riassembla i materiali verso la loro apparizione come opere finali, (Armour; All my skin; A few pound of meat)».
«Le opere di Fineschi e Longo tendono a mettere a fuoco il potere di cambiamento attraverso una profonda analisi del sé in cui la forza del dissenso e del conflitto si trasformano in strumenti liberatori consapevoli che riconsiderano memorie ed esperienze da differenti prospettive», conclude la curatrice. «La forza e il conflitto non sono violenza. Il conflitto è parte della vita e della relazione con gli altri. Nel conflitto c’è simmetria tra le parti, un ritorno potenziale verso se stessi che implica una capacità di analisi sulle fragilità e le paure. La violenza, diversamente, è un processo che tende a risolvere e ad annullare il conflitto eliminando l’altro, “il nemico”».