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Quello della cultura visiva giapponese è un universo ancora tutto da esplorare. Il che potrebbe sembrare paradossale, considerando la mole di prodotti a disposizione, dagli anime di massa che hanno letteralmente cresciuto le generazioni occidentali degli anni ’80 e ’90, ai raffinati film del maestro Hayao Miyazaki, fino ai progetti dedicati ai grandissimi artisti del XIX e XX secolo, come Katsushika Hokusai, Utagawa Hiroshige e Kawase Hasui (bellissima la mostra alla Pinacoteca Agnelli, nel 2020). Eppure rimane ancora molto da conoscere ed è sempre sorprendente scoprire le diverse sfaccettature e i tantissimi aspetti assunti dalla pratica dell’arte, nella corso della lunga e complessa storia del Paese del Sole Levante. Ecco due progetti espositivi che fanno luce su altrettanti aspetti affascinanti e meno noti dell’arte giapponese.
Yokai: mostri e spettri alla Villa Reale di Monza
Aprirà il 30 aprile e rimarrà visitabile fino al 21 agosto, nel Belvedere della Villa Reale a Monza, “Yōkai. Le antiche stampe dei mostri giapponesi”, mostra a cura di Paolo Linetti, ideata e prodotta da Vertigo Syndrome, con il patrocinio del Comune di Monza e catalogo Skira. L’esposizione presenta 200 opere del XVIII e XIX secolo, tra stampe, rari libri antichi, abiti, armi, spade e un’armatura samurai, oltre a 77 preziosi netsuke, piccole sculture in avorio, della collezione privata Bertocchi, finora mai mostrate al pubblico. Presentato per la prima volta anche un rotolo a scorrimento lungo 10 metri, che racconta la vicenda di Shutendoji, un Oni, cioè una creatura mitologica, a capo di un esercito di mostri che infestava il monte Oe nei pressi di Kyoto.
La mostra promette di farci immergere nel brivido della scoperta, ispirandosi al rituale delle cento candele, introdotto nel periodo Edo, per il quale ogni samurai doveva raccontare ai suoi compagni una storia paurosa con protagonista gli Yokai, un termine che si può tradurre con “demoni”, “spettri”, “apparizioni”, ma anche i Bakemono, mostri mutaforma, e gli Yurei, spettri e ritornanti. Vastissima l’enciclopedia, dalle Jorogumo, avvenenti donne che rivelano alle vittime la loro natura di enormi ragni, ai Tanuki, simpatici tassi trasformisti, fino ai gatti Bakeneko e alle sirene Ningyo, la cui carne profumatissima può donare agli uomini giovinezza o morte.
Sono i mostri di queste storie, rappresentati nelle opere dei più famosi artisti giapponesi del XVIII e XIX secolo, che scandiscono il percorso della mostra alla Villa Reale di Monza, alla scoperta dell’immaginario collettivo e quotidiano degli uomini e delle donne giapponesi, tutti ben consapevoli di coesistere e di venire in contatto con questi esseri inquietanti. Tra gli artisti, Tsukiyoka Yoshitoshi, ultimo grande maestro dell’Ukiyo-e, in grado di rendere in opere i racconti più sanguinosi e terrificanti, Kuniyoshi Utagawa, maestro nella costruzione di scene di forte impatto visivo, come nel trittico “La principessa strega Takiyasha e lo scheletro [del padre]”, da Storia di Utö Yasutaka, in cui l’enorme scheletro incombe su tutto l’impianto compositivo.
Troviamo poi Chikanobu Yoshu, noto per la tensione psicologica che sapeva infondere nei suoi lavori, Kyosai Kawanabe, rinomato per le sue opere dall’atmosfera divertente e grottesca, e Kunisada che, con la sua onnipresente e posata grazia, suscitava empatia verso protagoniste tragiche e romantiche.
Kesa: le vesti buddiste al MAO di Torino
Le origini del kesa, termine giapponese che traduce dal sanscrito “kasaya”, cioè “ocra”, la veste indossata dai monaci buddhisti, sono antichissime e leggendarie. Secondo la tradizione fu il Buddha stesso a chiedere al suo discepolo Ananda di realizzare un abito che tutti i suoi seguaci potessero indossare e che fosse somigliante alle geometrie delle risaie in cui amava passeggiare. L’uomo lo accontentò e cucì una veste semplicemente assemblando tessuti di recupero. Da allora, i monaci iniziarono a realizzare i kasaya, che prenderanno il nome di kesa quando il Buddhismo farà la sua comparsa in Giappone, unendo vecchi lembi di stoffe, scampoli spesso laceri e rovinati e tinti con terre umili (ocre, da cui il nome), che vanno a comporre una veste unica, “il più prezioso degli abiti”, simbolo di semplicità e purezza.
In occasione di una delle periodiche rotazioni a fini conservativi che interessano la galleria dedicata al Giappone, viene eccezionalmente esposto al pubblico uno dei tesori delle collezioni del MAO – Museo d’Arte Orientale di Torino, un kesa di epoca Edo (sec. 1603-1967) in raso di seta verde broccato, decorato con gruppi di nuvole e una serie di motivi circolari sparsi, ognuno dei quali ricorda una corolla floreale stilizzata. La scelta e l’accostamento di colori, oltre alla stessa iconografia, rimandano agli analoghi tessuti realizzati in Cina già durante l’epoca Tang e sono frutto di commistioni e di influenze reciproche fra Cina e Medio Oriente che, nei secoli, hanno fatto viaggiare sulle antiche rotte commerciali non solo merci preziose, ma lingue, stili, saperi.
Su queste stesse rotte ha viaggiato anche il secondo kesa esposto, un raro esemplare creato a partire dal cosiddetto “broccato di Ezo”, un tipo di tessuto giunto in Giappone dalla Cina attraverso la zona di Ezo, l’attuale Hokkaido, terra degli Ainu. Il tessuto in seta e argento a strisce presenta una decorazione floreale molto ricca: su uno sfondo brillante di color rosso-arancio sono intessuti grandi tralci di peonia e altri fiori, accostati a simboli augurali, fra cui spicca il motivo ricorrente della moneta, stilizzata secondo l’uso cinese nell’anagramma degli “Otto Tesori”.