Replicazione e frammentazione sono i concetti e i principi formali su cui si impernia la mise-en-scène dei modi in cui la memoria viene a comporsi e organizzarsi nella proposta di Rebecca Ackroyd (Cheltenham, Regno Unito, 1987) per la sua personale, Mirror Stage, a cura di Attilia Fattori Franchini. Evento collaterale della 60ma Biennale d’Arte di Venezia, la mostra allestita negli spazi del Fondaco Marcello è presentata da Kestner Gesellschaft di Hannover con il supporto di Peres Projects, galleria d’arte con base a Berlino, Seoul e Milano.
La vicinanza all’acqua – l’edificio, ex magazzino del tabacco, affaccia sul Canal Grande – e la struttura del fondaco – un’architettura funzionale in laterizio con colonne sormontate da imponenti capriate in legno – hanno sollecitato in Ackroyd l’idea di relazionarsi allo spazio come a un bagno-teatro-tempio: luogo di purificazione, finzione e casa degli dei. Delimitato da una membrana plastica traslucida, il naòs coincide con il palcoscenico. Lì sono ordinati e ripetuti, su una moquette rosa pallido, i calchi in resina di porzioni di corpi femminili, di bambini e bambine, i bassi ventri infilzati all’altezza dell’ombelico da barre filettate fuoriuscite da fusti e ruote immobili – à la Duchamp – in acciaio specchiato.
Le strisce di pellicola cinematografica inserite tra i materiali delle sculture – fiori sintetici, stampe dal film The Virgin Suicides (S. Coppola 1999) – suggeriscono l’approccio alla creazione di Ackroyd, che guarda concettualmente al processo analogico di montaggio su celluloide (sezionare fisicamente un film) per creare ibridi visivi e atmosfere surreali contaminate da riferimenti alla cultura hollywodiana, pop e ladette ossia, nelle parole dell’artista, «Del bere a volontà, del togliersi il costume e della lascivia in generale. L’epoca di Bridget Jones, in cui gli adulti si ubriacavano, lavoravano nei media e vivevano a costo zero in appartamenti ridicolmente belli nel centro di Londra». Di lì i bacchini che oziano sui basamenti di damigiane colme di liquidi, ambiguamente alcolici o fluidi corporei, o i plateau-boots sulle gambe accavallate. Sono questi alcuni dei riferimenti a monte dell’estetica, tra cosmesi e allucinazione, che permea i temi indagati da Ackroyd: la fisicità, la sessualità, il desiderio, per come possono essere vissuti nell’intimità e nei codici collettivi.
Gli specchi rivolti verso l’alto dove casualmente ci si incontra sono il più diretto riferimento alla locuzione lacaniana dello “stadio dello specchio”, fase nella quale il bambino, vedendo il proprio riflesso, inizia a percepirsi come io unitario ma alienato in una immagine speculare dove auto-riconoscimento ed estraniazione collimano. Ecco che l’ambiente del Fondaco, abitato da personaggi che per Ackroyd rassomigliano più a parole o a frasi spezzate che a oggetti, se posto in relazione alla teoria di Lacan sulla struttura linguistica dell’inconscio, lascia intendere come l’artista tenti di mostrare, di quest’ultimo, la funzione rappresentativa, nell’alterità sostanziale che la separa dal mondo.
Esternamente al perimetro che contiene la coreografia statica degli “olimpi” di Ackroyd è allestita la controparte pittorica di Mirror Stage. Muri di pigmento dalle linee di forza centrifughe, una rosa e un papavero, il buco dello scarico, quadranti di orologi, ciocche di capelli ramati – indiziali di un autoritratto? – collocabili tra Domenico Gnoli e Georgia O’Keeffe, tra Pop art, Precisionismo e Iperrealismo, gli olii e le gouache sono icone paradossalmente più concrete e dense della scultura, che in Ackroyd tende alla sparizione.
Da nessuna angolazione è possibile fruire della mostra nella sua interezza, specifica l’artista. Occorrerebbe uno specchio convesso a soffitto dove ogni cosa possa riflettersi, ma non sarebbe comunque quello il mondo, ma il sito di un’altra arbitraria idea di significato, dove la memoria stessa – che Ackroyd paragona a una balbuzie – ha più affinità con l’immaginazione, con la ri-costruzione e ripetizione ossessiva, persino neutralizzante, dei significati e dei significanti, di quanto la terminologia non dica.
La mostra di Rebecca Ackroyd sarà visitabile al Fondaco Marcello, a Venezia, fino al 24 novembre 2024.
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