Images on which to build 1970s-1990s, in corso al Leslie-Lohman Museum of Art di New York fino al 30 luglio 2023 e curata da Ariel Goldberg, illustra, attraverso fotografie d’archivio, i progetti educativi realizzati dalle comunità americane LGBTQ+ degli anni ’70-’90. Come portali di resistenza e di sopravvivenza, come strumenti di riflessione e attivismo, le fotografie presenti in mostra, dalle istantanee personali alla documentazione delle proteste, invitano a riflettere sul potere delle immagini come strumento di autodeterminazione offrendo uno sguardo particolare sugli spazi di resistenza e di intimità all’interno delle comunità LGBTQ+. <<La mostra ruota attorno alla domanda “in che modo i fotografi usavano gli strumenti a propria disposizione per aiutare a costruire progetti educativi e come venivano organizzati?” Ogni sezione risponde a questa domanda attraverso punti di vista e materiali differenti>>, spiega Goldberg. <<L’insieme di questi ultimi costruisce la mostra all’interno di essa>> Le sezioni includono il lavoro della fotografa Lola Flash accanto al collettivo ART+Positive, le fotografie dell’artista ed educatrice Diana Solís e il progetto Mujeres Latinas en Acción, la mostra itinerante Keepin’ On del Lesbian Herstory Archives, le connessioni tra il fotografo Loren Rex Cameron e il lavoro di FTM International e del Sexual Minorities Archives, la mostra di diapositive Electric Blanket di Allen Frame, Frank Franca e Nan Goldin con Visual AIDS e infine lo slideshow The Dyke Show di Joan E. Biren. L’opera “Intimacies in Resistance” di Diana Solís rappresenta un punto di partenza importante all’interno della mostra. La fotogiornalista messicana ha documentato le organizzazioni lesbiche nel suo paese natale e all’interno delle comunità latine di Chicago, dove è cresciuta e ha iniziato la sua pratica fotografica.
Attraverso le sue fotografie, Solís è in grado di catturare l’essenza delle persone e dei luoghi, evidenziando la complessità delle loro storie e i modi in cui queste si intrecciano con la lotta per i diritti LGBTQ+. Altra artista all’avanguardia nella politica visiva genderqueer, Lola Flash, di cui in mostra si propongono alcuni dei suoi lavori, tra cui “Clit Club Series” che Flash ha scattato agli abitanti di quell’iconico locale notturno degli anni ’90, non mentre si trovava nel club stesso, che aveva una politica di divieto di ripresa, ma che ha incontrato mentre lavorava dietro il bancone. In questa serie, Flash utilizza la tecnica di elaborazione incrociata dello sviluppo fotografico per creare immagini in cui luce e ombra sono invertite, rendendo difficile, se non impossibile, discernere l’identità dei soggetti. Una delle sezioni più interessanti della mostra è rappresentata da “Keepin’ On: Images of African American Lesbians”, una delle prime esibizioni itineranti del Lesbian Herstory Archives, che ha debuttato nel 1991 al Lesbian & Gay Services Center di New York e ha viaggiato in centri comunitari e università per oltre dieci anni. Questa sezione documenta l’ampio ma poco riconosciuto lavoro culturale e politico della comunità lesbica afroamericana, nell’arco di un secolo, attraverso una serie di generi fotografici. In continuità con la sezione “Keepin’ On“, la mostra presenta una sezione dedicata ad Allan Bérubé e al suo slideshow “Little Gems: Trans Image Networks” del 1979. La sezione documenta l’impatto che lo slideshow ha avuto tra gli attivisti e gli educatori trans negli anni successivi, attraverso diverse forme di propagazione, come corrispondenza personale, newsletter, opuscoli e autoritratti fotografici.
Dopo la sezione dedicata a “Little Gems”, la mostra prosegue con una sezione successiva interamente dedicata alla proiezione fotografica “Electric Blanket: AIDS Projection Project“, creata da Allen Frame, Frank Franca e Nan Goldin per documentare l’epidemia di HIV/AIDS. Lo slideshow, articolato in tre temi (“Memoriale”, “Azione” e “Documento”), unisce immagini di persone care decedute e di persone affette da HIV/AIDS con fotografie di manifestazioni, slogan di protesta, statistiche ufficiali e altre informazioni. Infine, chiude la mostra la sezione dedicata a Joan E. Biren, familiarmente nota come “JEB”, e sulla sua leggendaria presentazione di diapositive “The Dyke Show” (originariamente intitolata “Lesbian Images in Photography, 1850 to the Present“). Attraverso l’allestimento di apposite aree per assistere alla proiezione collettivamente, la mostra offre ai visitatori un’esperienza coinvolgente in cui l’umorismo, l’educazione e la protesta si fondono. Questo approccio estende l’obiettivo di costruzione della comunità sia di “The Dyke Show”, che ha viaggiato tra spazi comunitari e università tra il 1979 e il 1984, sia di “Images on which to build, 1970s – 1990s”.Il titolo della mostra, infatti, deriva dalle parole con cui uno dei primi conduttori di “The Dyke Show” l’ha descritta.
Le posizioni di Goldberg emergono chiaramente anche nella scelta dell’uso creativo dell’archivio continuamente integrato nell’allestimento ed elaborato come metodo critico, come motore di attivazione politica nel presente. In mostra, le procedure di recupero e reinterpretazione delle fotografie d’archivio diventano centrali, definendo una sorta di ‘détournement archivistico’ in cui i contenuti del passato, ormai assenti dallo spazio pubblico, vengono recuperati e rianimati nel presente. L’archivio, così, viene considerato da Goldberg come agente attivo che dà forma sia all’identità personale che alla memoria collettiva e culturale: “It’s important to me to show how an archive as a place for people to come to is a site for empowerment”, afferma Goldberg a tal riguardo. È degno di nota, infine, sottolineare che la cultura visiva e materiale dei movimenti sociali e attivisti viene raramente esposta nelle principali istituzioni artistiche, rimanendo quasi del tutto emarginata dalla sfera dell’arte ‘alta’ dei musei.
Infatti, invece di essere esposta solamente in una sede esplicitamente incentrata sull’arte queer o femminista, come il Museo Leslie-Lohman, Images on Which to Build è stata presentata in precedenza al Contemporary Arts Center di Cincinnati, indice di un cambiamento istituzionale più ampio. La mostra, pertanto, rappresenta un’importante eccezione nel panorama artistico contemporaneo, poiché dà visibilità a un genere artistico spesso trascurato e ai suoi significativi contributi alla storia dell’arte e della cultura. In conclusione, la mostra di Goldberg, attuale e urgente, riesce a colmare un vuoto all’interno della fotografia documentaria della comunità LGBTQ+ degli anni ’70, ’80 e ’90, individuando nella micro-politica dell’arte lo spazio di un attivismo che corrode e rovescia i sistemi di oppressione. Gli scatti fotografici in esposizione offrono infatti l’occasione per depotenziare una narrazione considerata predominante e rafforzarne una contro egemonica, evidenziando la necessità di realizzare nuove narrative comuni e ridefinendo le modalità di genesi ed emanazione della conoscenza dei movimenti di liberazione LGBTQ+. Le fotografie in questione, non sono, dunque, reliquie del passato: la lotta per la liberazione collettiva è una lotta continua, e Images on Which to Build è un’opportunità per far (ri)vivere queste storie.
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