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Sono tanti gli artisti che attingono alla natura temi, forme, atmosfere, ma pochi sono quelli capaci di renderne l’epidermide, la vibrante fisicità. Tra quelli in grado di farlo senza cadere nella retorica o nel mero virtuosismo è Nicola Rotiroti (Catanzaro, 1973), artista di lungo corso e consumata tecnica. Di questa sua perizia dà oggi ulteriore dimostrazione nella mostra “Tratto da una storia vera” in corso fino al 12 febbraio alla Kou Gallery a Roma, a cura di Ludovica Palmieri e Massimo Scaringella, con testi critici dei curatori e di Roberto Gramiccia.
Sette grandi tele, quattro a colori e tre in bianco e nero, restituiscono con retinica veridicità la scabra corteccia degli alberi. Cumuli di rami disposti con apparente casualità, che uno sguardo più attento rivela studiati nella composizione e nella scansione spaziale. Sinfonia di bruni, di verdi, di azzurri, di rossi, resa a punta di pennello, in tratti sottili, uno affianco all’altro, a rendere una texture di grande perfezione ed ammaliante tattilità.
Un nuovo soggetto suggeritogli da una fascina di legni osservata nel giardino del suo studio romano, coerente con la sua ricerca, tesa all’indagine del suo habitat di vita e al contestuale studio delle sue radici. Pur nella diversità del soggetto in questo nuovo ciclo di dipinti si riconosce la sua inconfondibile cifra stilistica. A quanti conoscono la sua pittura, non sarà difficile riconoscere in queste opere di ruvida pittura le sorelle dei suoi grandi dipinti marini, in cui solitari nuotatori appaiono immersi nell’acqua. Bagnanti ma anche nuovi nascituri colti in un rito catartico, in un ritorno alla vita. Anche questi grandi dipinti in cui l’artista ha ritratto amici e conoscenti nell’atto di immergersi, circondati da bolle che accrescono la veridicità della scena.
Ma nella mostra odierna assistiamo a una variante significativa rispetto a quel ciclo e agli altri che lo hanno preceduto. In questo nuovo scenario di assoluta verità degli inserti di bianco assoluto restituiscono la finzione della pittura, il fascino dell’inganno. È il bianco che precede la pittura, il vuoto che anticipa la pienezza. Salti figurativi in cui la rappresentazione implode.
Non una contraddizione della sua impeccabile tecnica ma la consapevolezza di una via di fuga dalle sue ingannevoli trame, in cui lo stesso artista rischia di rimanere ingabbiato, autocompiacendosi della sua bravura e dimenticando il messaggio da veicolare. Rotiroti sa bene che la pittura non è fine a se stessa ma è veicolo di un concetto. Per questo è necessario sfondare il piano della rappresentazione per approdare a quello dell’interpretazione. Un ragionamento tutto interno al linguaggio che travalica l’affascinante figurazione di una natura immersiva e incombente.
Inserendo quelle forme di bianco l’artista rievoca il punto di partenza, l’origine della pittura, in un grado di essenzialità tale da ricordare a chi dipinge e a chi osserva che la pittura esiste a priori della rappresentazione, finanche nel suo punto zero, fino ad asserire che essa risiede già nel vuoto segnico, nel bianco della tela.