Albano e Romina sono arrivati in zona Cesarini, quando ormai si stava tutti per abbandonare la Sala del Minor Consiglio. E chi scrive pensava di essere l’unico animo pop (quasi, quasi trash), seduto alla presentazione di Nostalgia. Modernità di un sentimento dal Rinascimento a contemporaneo. Titolo che giusto il tempo di leggerlo e già nelle orecchie aveva la “Nostalgia canaglia” degli ex-piccioncini d’Italia. Quella che “ti ritrovi con un cuore di paglia”, non a caso uno dei primi suggerimenti che si ottengono googolando “nostalgia”. Poi Ilaria Bonacossa, neo direttrice artistica di Palazzo Ducale, indica quei due nomi, scherzando sulla papabile colonna sonora della mostra. E avallando – molto involontariamente – questo pensiero: quando si tratta un sentimento popolare e variegato come la nostalgia, anche Albano e Romina hanno una loro ragion d’essere (citati).
Nostalgia non è solo una mostra, è «Un’opera d’arte» dice Beppe Costa, presidente di Fondazione Palazzo Ducale. Manieroso, come scusante non vale nemmeno che questo sia il primo progetto prodotto interamente dal Ducale da dieci anni a questa parte. Dell’intervento di Barbara Grosso, ex assessore alla cultura del Comune di Genova e ora qui in qualità di Consigliere Delegato (sempre del Comune di Genova), non ricordiamo nemmeno un punto, ma solo come il tutto risultasse molto mellifluo. E prima che cotanta impalpabilità verbale possa annichilire tutti, Bonacossa riflette sul fatto che «Siamo una società che non crede molto al futuro», riferendosi direttamente ai vari remake anni ’70 – ’80 – ’90 a cui assistiamo in ogni campo, tra moda, musica e televisione. Sulla stessa lunghezza d’onda Matteo Fochessati, curatore assieme ad Anna Vyazemteseva, sodale a Bonacossa nel notare come in generale «Nelle strategie del marketing ci sia un ritorno al passato». Sintomo che la nostalgia è sempre e per sempre tra noi, più attuale e viva di quanto crediamo.
Dodici sezioni, per altrettante sfaccettature di un sentimento qui organizzato circolarmente, come suggerisce Fochessati. Ad ognuno la sua nostalgia, tanto che una pragmatica Bonacossa esorta tutti – l’atto di esortare il pubblico di un’anteprima stampa merita sempre stima – a scegliere la propria. Customizzati. E siccome chi scrive non se lo fa certo dire due volte, per sé non ha dubbi: la “Nostalgia della felicità”. Penultima sezione, dove il rapporto luci/buio creato da Giacomo Balla e il suo Luna park Parigi, datato 1913, già da solo è in grado di riportarti in una dimensione di nostalgia pungente. Pure i due paffuti bambinetti sul bagnasciuga a Fregene di Giulio Aristide Sartorio, o le donne sulla Spiaggia del Lido di Ettore Tito, fanno la loro parte. Però la fanno in maniera più morbida, dolce, bilanciando il pungente di Balla e movimentando una bella sezione.
Post felicità segue la “Nostalgia dell’infinito”, che oltre ad essere l’ultima tranche espositiva è pure la più concettuale e contemporanea. Con un preponderante Anish Kapoor (allestimento pomposamente riuscito, ma Kapoor è quel contemporaneo che dove lo metti sta), un ammaliante Ettore Spalletti e un piccolo monocromo blu (Yves) Klein. E quel masterpiece umano di Lucio Fontana, che fa il paio con Kapoor sia per ricerca dinamico-spaziale, sia perché pure lui dove lo metti sta (bene). C’è da aggiungere che è l’unica sezione in cui si percepisce una dinamica transgenerazionale fondata sulla contemporaneità (su cui ci saremmo aspettati più spinta per tutta la mostra), grazie all’interazione intelligente tra i nomi citati e le visioni enigmatico-ottocentesche di artisti come Gustave Dorè o Giuseppe Pietro Bagetti. Quasi l’unica in verità: c’è la Malinconia I di Ruggero Savinio versus Melancholia I di Albrecht Dürer, analisi di uno stesso soggetto ad esattamente a 473 anni di distanza. Va aggiunto che Savinio offre sì una lettura incentrata sulla propria cifra stilistica, tuttavia votata a conservare il modello sul piano iconologico e iconografico. Come dire: il confronto è concettualmente e curatorialmente inappuntabile, ma sa un po’ di compitino. Perlomeno rispetto a una chicca di cui vi renderemo conto a breve.
Breve, diciamo pure brevissimo. Abbiamo da farvi un nome noto del contemporaneo, quello di Adrian Paci. Chi meglio di lui, qui con Centro di permanenza temporanea, può essere alfiere dello sradicamento da “Nostalgia di casa”. Un lavoro di fine anni ’90 stranoto, ma che è pure sempre stra-attuale e stra-comunicativo di una condizione, di un’assenza di prospettive future che si scontrano con le certezze del passato. E di fronte a Paci la grande (e intensa) tela Partenza mattutina. Veduta interna di una stazione con figure di Luigi Selvatico. Curatela fecit, questo è il dialogo/contatto che ci si aspetta da un progetto del genere, dove l’attualità di un sentimento è affrontata nella sua evoluzione diacronica. E rilanciamo dicendo che costituisce pure uno dei punti più alti della mostra. Una mostra che offre tanto: tanti nomi, tante opere, spesso anche ben dettagliate nelle spiegazioni. Tanto che non è troppo, sia beninteso. Tanto che fa riflettere su come certe presenze possano funzionare anche da volano (chi scrive si sarebbe presentato anche solo per vedere l’arte del bulino di Dürer, per dire), ma non essere autoportanti in nessun progetto espositivo “molto ragionato” (per quelli “meno ragionati” – leggasi “mostre blockbuster” – non garantiamo). E questo, che è a tutti gli effetti un progetto “molto ragionato”, non solo per i due anni e mezzo di gestazione sottolineati da Fochessati, alla fine si fa apprezzare particolarmente per nomi di nicchia come quello di Selvatico, oggetto di una contestualizzazione tematico-emozionale che non fa un plissé. Morale della favola: puoi avere Giorgio De Chirico (prendiamo il primo nome tra i più celebri), ma chi ti fa realmente battere il cuore è un Selvatico in pendant ideale con Paci. O Federico Cortese quando si parla di “Nostalgia del classico”, con una grande tela che ti rapisce prima nell’insieme, poi in ognuna delle sue ritmiche pennellate impressioniste.
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