«La macchina fotografica è un pretesto per trovarsi il luoghi a cui altrimenti non si appartiene», parola di Susan Meiselas, che a Reggio Emilia – per la sua prima volta in Italia – ha raccolto 50 anni di vita e di lavoro all’interno di 10 progetti che abitano le altrettante stanze di Palazzo Magnani in occasione della XIX edizione di Fotografia Europea (ne avevamo parlato qui).
«Non è stato facile», ha detto Meiselas riferendosi all’atto di guardare indietro, verso una vita passata a cercare nuove tematiche attraverso la macchina fotografica che, dice, «mi dà sia un punto di connessione che di separazione»: la retrospettiva, Mediations, copre sostanzialmente l’intero arco della sua vicenda creativa e narrativa e presenta, accanto a lavori che appartengono al nostro immaginario collettivo, anche scatti meno noti, provini e suoni, favorendo la comprensione di cosa c’è oltre lo scatto, che appartiene alla storia dell’autore e che diventa anche la storia di ognuno di noi.
Fotografa americana nota soprattutto per il suo lavoro nelle aree di conflitto dell’America Centrale (1978-1983) e in particolare per i suoi potenti scatti della rivoluzione nicaraguense, Meiselas sceglie di iniziare il percorso espositivo con una serie di scatti (44 Irving Street) che ritraggono gli inquilini della pensione in cui viveva come studentessa di Educazione Visiva all’Università di Harvard e che aveva invitato, per il suo primo corso di fotografia, a posare per lei all’interno dei loro spazi privati. Questi scatti rendono visibile l’incontro con qualcuno che è al di fuori di noi – «ho voluto enfatizzare l’incontro – spiega – non solo attraverso singoli scatti e singole persone ma attraverso una serie di tanti scatti ripresi anche lungo lo scorrere del tempo quindi si guarda lungo il tempo, dentro al tempo, con le persone all’interno dei diversi luoghi» – e proiettano la macchina fotografica in una dimensione che supera la rappresentazione e si apre alla relazione.
Relazione è, non per caso, la parola chiave anche dei progetti che seguono nel percorso. Porch Portraits (1974) ritrae gli abitanti di un paese della Carolina del Sud, vicino a dove lei insegnava, davanti alle loro piccole case di legno con le verande aperte; Carnival Strippers (1972-75) è una serie di fotografie di donne che lavorano come spogliarelliste nei carnevali del New England. Sono tutti scatti catturati per strada, con l’idea di immergersi nello spazio e nella vita delle persone: le ragazze che abitavano il quartiere e le ragazze che se ne sono andate dal quartiere. Proprio le immagini di Carnival Strippers – con cui Meiselas si è presentata da Magnum Photos – hanno costituito il suo primo grande libro fotografico, concentrato sulla vita lavorativa delle donne e sulle dinamiche di potere all’interno degli spettacoli, attraverso il reportage e il ritratto, integrando le immagini con registrazioni audio delle donne, dei loro manager e dei loro clienti.
Mediations (1978-1982), che dà il titolo alla mostra, è anche la quarta sala del percorso – è stato anche il titolo di una mostra a Newcastle nel 1982 – e racconta di una comunità diversa dalle ragazze, una comunità in cui Meiselas si è ritrovata, quella nicaraguese. È il 1981 quando Meiselas pubblica nel libro Nicaragua le sue foto della rivoluzione, che ha scelto tra il giugno del 1978 e il luglio del 1979 con un attento processo di selezione che però non è andato di pari passo con l’uso, delle stesse, da parte dei mass media: come le immagini vengono utilizzate in contesti diversi? In questa stanza le fotografie sono suddivise su tre piani: al centro Meiselas ha disposto le immagini della prima edizione del libro – a volte interrotte da immagini incorniciate che sono state esposte in un contesto artistico e sono entrate a far parte di collezioni pubbliche e private – in basso ci sono le immagini che sono state considerate per la pubblicazione e poi scartate, accompagnate anche da alcune note che testimoniano le scelte fatte, e in alto invece ci sono i ritagli di riviste internazionali, che rivelano un contrasto tra la narrativa di Meiselas e quella dei media, che spesso preferiscono immagini d’azione piuttosto che di momenti quotidiani.
A proposito di circolazione e distribuzione, che affascinano Meiselas come afferma in prima persona, la stanza successiva a Mediations, intitolata The Life of an Image: Molotov Man (1979-2018), è dedicata alla fotografia del rivoluzionario sandinista (rimasto anonimo fino alla scoperta, dieci anni dopo, del suo nome, Pablo “Bareta” Arauz) che Meiselas scattò mentre lanciava una molotov contro uno degli ultimi reggimenti della Guardia Nazionale rimasti sotto il controllo della dittatura di Somoza. L’immagine divenne un simbolo della rivoluzione nicaraguense e circolò in varie forme – fu replicata, nel giro di pochi anni, su murales e graffiti, su magliette, opuscoli, pubblicità e libri commemorativi – veicolando messaggi diversi nel corso dei decenni. Questo progetto, come il successivo – in termini espositivi – El Salvador (1978-1983), che cattura la violenza della dittatura militare e della guerra civile che seguì il colpo di Stato del 1979, testimoniano come sempre Meiselas abbia condotto, attraverso la fotografia, un’analisi nel tempo e lungo il tempo all’interno di uno stesso luogo.
Il percorso prosegue e dalla guerra si arriva alle questioni relative ai diritti umani. Nel 1992, su invito a contribuire a una campagna di sensibilizzazione per dare maggiore risalto alla crescente violenza domestica a San Francisco, Meiselas iniziò a creare Archives of Abuse, una serie di collage di rapporti di polizia e fotografie di scene del crimine, esposti negli spazi pubblici della città come manifesti per le pensiline degli autobus. «Allora – racconta – era un tema scarsamente noto, non se ne parlava ed era difficile coglierne il senso. Rendendomi conto che anche i poliziotti scattavano fotografie nei luoghi della violenza, ho cominciato a collaborare con loro: non era importante chi facesse lo scatto, era importante mettere insieme le prove. L’idea della prova e dell’evidenza è iniziata in Nicaragua, e mi ha accompagnata fin qui». Nella stanza non ci sono solo i collage, c’è anche la voce di una delle vittime, Irma, raccolta un paio d’anni dopo la sentenza contro il marito, perché la violenza esiste nella memoria e nel ricordo della persona, oltre la cicatrice.
Nonostante ci sia uno scarto temporale di vent’anni, anche A Room of Their Own si ricollega al tema della violenza domestica. Nel 2015 Meiselas ha lavorato con sopravvissute ad abusi domestici in una regione post-industriale del Regno Unito, costruendo una storia visiva a più livelli in cui le sue fotografie sono combinate con testimonianze e collage realizzati dalle partecipanti in un processo di collaborazione tra le donne, gli artisti locali, lei stessa e l’organizzazione aritstica no-profit Multistory. In ogni stanza, che sineddochicamente va a rappresentare una vita ed è unica, la donna, vittima, è assente, ma è proprio la sua assenza a gridarne la presenza, facendoci specchiare in un particolare luogo, in un particolare momento.
L’ultima sala del primo piano, Pandora’s Box (1995), raccoglie la serie, omonima, scattata in un club sadomaso di New York, dove Meiselas ha scoperto un’altra relazione con il dolore e la violenza, concentrandosi su atti di violenza controllata che producono dolore autoinflitto. «Nel Pandora’s Box ho assistito alla scelta di un individuo di partecipare a quello che dall’esterno sembrava un atto violento. Ma rappresentava un gioco in un contesto controllato in cui l’uomo poteva dire: ‘Pietà, padrona’, e si fermava. Tuttavia, l’ho trovato impegnativo. E come nel caso di Carnival Strippers, sono state le relazioni di potere a catturare la mia attenzione: donne che esercitano un tipo di potere che sospetto per gli altri».
Mediations si chiude, al piano terra, con due progetti ancora in corso: Kurdistan e akaKURDISTAN Story Map, entrambi pensati come archivi della memoria collettiva di un popolo senza Stato, disperso in tutto il mondo. Tutto iniziò quando Meiselas si recò nel nord dell’Iraq per registrare le prove della campagna di genocidio di Saddam Hussein del 1988, nota come Anfal, contro i curdi iracheni. Fotografando fosse comuni, come prove dei crimini, si accorse di non non sapere niente delle vittime, delle loro storie, delle loro aspirazioni: «fotografavo il presente e sapevo così poco del passato». Allora si mise a cercare negli archivi occidentali e negli album di famiglia per creare una storia visiva del popolo curdo e nel 1997 pubblicò il libro Kurdistan: In the Shadow of History. Nella stanza, dove un’installazione comprende una mappa con storie personali della comunità curda vittima di diaspora, c’è spazio per conoscere anche akaKURDISTAN, un sito web concepito come luogo di scambio, come uno spazio senza confini, che offre l’opportunità di costruire una memoria viva e collettiva con un popolo che non ha un archivio nazionale: «la fotografia – del resto – è un documento che resiste alla cancellazione», parola di Susan Meiselas.
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