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L’onda della Corea del Sud in mostra al Victoria & Albert di Londra
Mostre
Dalle macerie di una lunga e sanguinosissima guerra civile, alla superficie scintillante degli smartphone, nel giro di una manciata di decadi. Poteva succedere qualcosa di simile anche in Italia ma è stata la Corea del Sud ad aver cavalcato l’onda sempre più in alto e fino in fondo, nel senso letterale dell’immagine: hallyu, scritto 한류, è un neologismo che faremo bene a capire come pronunciare correttamente e che significa “onda coreana”.
Una figura retorica ma nemmeno tanto, per definire quel fenomeno di diffusione globale della cultura di massa sudcoreana, verificatosi a partire dagli anni ’90 e che oggi, tra un Gangnam Style e una serie Netflix, sembra aver toccato un apice. E un museo particolarmente attento a certe manifestazioni della società, come è il Victoria & Albert Museum di Londra, non poteva farsi sfuggire l’occasione di raccontare questa affascinante storia, che intreccia soft power e geopolitica, creatività e controllo. E poi, proprio poche settimane fa si è svolta la prima, storica edizione di Frieze a Seoul: la fiera british per eccellenza è finalmente approdata in Corea del Sud. E il cerchio si chiude, come sempre.
Una linea sottile: dal 38° Parallelo al Gangnam Style
Per la scrittrice e giornalista coreano-americana Euny Hong, hallyu è diventato l’espressione del «Cambiamento di paradigma culturale più grande e veloce al mondo nella storia moderna». In effetti, la preparazione è stata piuttosto elaborata: la Corea è stata uno dei primi territori sul quale si sono incontrate le potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale, le truppe statunitensi al Sud, quelle sovietiche al Nord, divise dal famigerato 38mo parallelo.
Come spesso capita, è stato da quella separazione, precisamente con l’istituzione della Repubblica di Corea, il 15 agosto 1948 – data che sancisce la nascita della Corea del Sud – che è iniziato tutto. Poi vennero i colpi di Stato immancabilmente guidati dai militari, le rivolte studentesche e dei movimenti di sinistra represse con la violenza, le crisi e le crescite economiche, l’industrializzazione forzata, l’impulso alle esportazioni, lo sviluppo dei “chaebol”, i grandi conglomerati a conduzione familiare che oggi sono Samsung, LG e Hyundai, la graduale stabilizzazione politica verso una democrazia liberale.
Tutto ciò per arrivare, oggi, al Gangnam Style, cioè lo stile lussuoso e moderno che può sfoggiare chi si gode la vita nel Distretto di Gangnam, zona di Seoul in cui grattacieli avveniristici, atelier alla moda, locali notturni, gallerie e musei d’arte (ormai la capitale coreana è anche una capitale del contemporaneo) convivono con l’antico tempio buddista Bongeunsa. Perché in Corea la cronologia è un elastico che si tende e si restringe per schioccare come un fulmine dal 1392 al 1910. Quando la dinastia Joseon, che aveva dominato il Paese per il periodo monstre di 500 anni basandosi sulla solidità dell’ideologia neoconfuciana, venne soppiantata dall’Impero giapponese che, tra le altre innovazioni, impose il calendario gregoriano, al posto di quello tradizionale cinese.
Hallyu, the korean wave: la mostra al Victoria & Albert
La mostra al Victoria & Albert ricorda un’altra data segnante, il 15 luglio 2012, quel giorno il cantate e produttore Park Jae-Sang, aka PSY, aprì una nuova pagina di storia, pubblicando il suo balletto “Gangnam Style” su YouTube. Quel video diventò virale dall’oggi al domani, battendo record di vendite e visualizzazioni, ispirando parodie ed emulatori su scala globale, raccogliendo premi e citazioni. A maggio 2014 la canzone aveva registrato oltre due miliardi di visualizzazioni su YouTube, oggi ne ha più di 4 miliardi e mezzo. E noi, right here right now, ci prendiamo quattro minuti per celebrare quel momento.
In esposizione al Victoria & Albert, circa 200 oggetti ed ephemera, divisi in quattro sezioni tematiche. Si parte, appunto, dalle macerie e si finisce agli smartphone: la prima parte ricostruisce il contesto storico che doveva portare all’ascesa fulminea dell’hallyu. La storia moderna della Corea è raccontata da fotografie, poster e materiali d’archivio, insieme a oggetti come i poster delle Olimpiadi del 1988 e i primi esempi di elettronica pensati per la diffusione commerciale e popolare, come il primo lettore MP3 al mondo. Anche l’arte contemporanea ha la sua parte: in mostra la famosa scultura video del 1986 del grande Nam June Paik, composta da 33 monitor TV.
La seconda sezione si concentra sul successo del genere K-drama, dagli anni ’90 a oggi, attraverso poster, storyboard, oggetti di scena e costumi. I punti salienti di questa sezione includono gli iconici costumi da guardia rosa e la tuta verde dei giocatori-prigionieri, protagonisti della serie Netflix “Squid Game”, oltre al set della stanza da bagno di “Parasite”, il film di Bong Joon-Ho, vincitore dell’Oscar.
Fenomeno virale per eccellenza, la musica K-Pop è ormai diffusa in tutto il mondo e la terza sezione della mostra ne sottolinea il ruolo cruciale, nella combo letale con i social media. Imperdibile una foto ricordo in stile Torre di Pisa con la statua di tre metri di G-Dragon, idolo della musica coreana, il Re del K-pop, scelto da Forbes come la persona sotto i trent’anni più influente nel settore dell’intrattenimento e dello sport asiatico. L’autore della scultura, che ricorda alcune opere di Jeff Koons, è Gwon Osang, artista nato in pieno boom economico e culturale coreano e tra i nomi più in voga da ormai qualche anno.
Si chiude in bellezza con la sezione K-beauty, sottolineando in maniera acutissima l’influenza della cultura coreana nell’approccio alla cura quotidiana del corpo e nell’istituzione di nuovi standard estetici. Con imballaggi per cosmetici dal XIII secolo ai giorni nostri, la mostra ripercorre l’evoluzione del design del packaging di questi particolari prodotti che delineano il nostro aspetto esteriore e quindi, in un certo senso, anche la nostra forma mentis interiore.