Osservatorio Cieco, Spazio X, Silvia De Vicari
Inaugurata l’8 marzo, giorno che porta con sé il peso della memoria e della lotta, la mostra Osservatorio Cieco non si limita a esistere nello spazio, ma si dilata, si contrae, si insinua, si fa carne e cicatrice. La personale dell’artista Silvia De Vicari, a cura di Simone Ceschin, si configura come un vero e proprio atto di resistenza. Resistenza alla superficie, all’effimero, alla dimenticanza. Le opere esposte incarnano i segni tangibili di una memoria che non smette di pulsare, che continua perpetua a parlare anche quando la parola sembra essere stata sussurrata al vento. Qui la pelle non è solo carne ma architettura della memoria, è la traccia viva di tutto ciò che ci ha attraversato, che non può essere dimenticato o rimosso.
L’osservatore si confronta con una sensazione di intimità brutale, di avvicinamento al corpo che nella sua vulnerabilità ci chiede di essere sentito, ascoltato. Ogni opera diventa un invito a entrare nel mondo fragile e profondo della materia, nella sua capacità di accumulare e di trattenere. Il latex si piega e si contorce come una seconda pelle che respira, i capelli dell’artista sono disposti con cura quasi maniacale secondo un andamento sinuoso, mentre la vasca colma d’acqua al centro dello spazio si erge come un ventre liquido, una membrana amniotica che assorbe e rifrange, dove le pelli si adagiano come frammenti di un’identità che non può essere contenuta. In questa dimensione il gesto non è mai neutro: è un atto violento di bellezza, un dolore che si fa carne e memoria. La fragilità di queste opere non è una debolezza, ma una forza che si fa sentire nella sua estrema precisione.
La calibrata tensione tra luci e ombre restituisce corpo e anima alle opere, le quali sembrano incarnare una lotta che non si risolve, che non trova tregua, galleggiando tra la rivelazione e l’oblio. Sono ombre che non nascondono, ma rivelano la condizione di un corpo che non ha paura di essere vulnerabile, di essere ferito. E in questa ferita che non smette di sanguinare si nasconde una grazia, quella di chi non ha paura di esistere nel suo stato più intimo, di chi non ha paura di restare esposto, visibile nella sua nudità più profonda e viscerale.
Il curatore della mostra Simone Ceschin restituisce con estremo rispetto e delicatezza la potenza evocativa del lavoro di De Vicari senza ingabbiarlo, ma amplificandone il respiro in un equilibrio fragile. In questo contesto, Spazio X non si fa contenitore passivo, ma specchio di un corpo che sfugge, che non è soltanto visto ma che ci costringe a guardarlo, ad abitare il suo caos. Ogni gesto, ogni traccia, non è mera contemplazione estetica, ma un invito a riscoprire una geografia del corpo che si fa memoria iridescente, a prendere parte a un rito che non ha inizio né fine, solo una incessante tensione verso l’essere.
Ogni elemento sembra vibrare di una vita propria. Le lastre di vetro illuminate con i capelli giustapposti dell’artista, distesi come tracce celestiali, sembrano alludere a una costellazione che non è visibile agli occhi ma percepibile nell’anima. Il gesto di strappare la pelle, di lacerarsi e ricomporsi, ci parla di un corpo che non si conforma, ma che si espande e si rigenera nel suo stesso disfacimento. Qui il materiale non è mai solo materia, ma diventa una lingua, una scrittura non più cancellabile, una memoria che si sedimenta nelle pieghe del tempo.
Le opere di Silvia De Vicari sono esperienze da attraversare, da vivere, sentire. La potenza emotiva che trapela da queste creazioni è disarmante nella sua immediatezza, ma al tempo stesso ci costringe a riflettere sul nostro rapporto con il corpo, sulla memoria che portiamo impressa dentro di noi, sul tempo che si accumula e lascia segni che non possono mai essere del tutto rimossi o lavati via. La forza evocativa di queste opere è tanto intellettuale quanto sensoriale: ogni frammento esposto è un lembo di pelle squarciato via dal passato, ma mai dimenticato o totalmente corroso.
Eppure, in questa tensione tra il desiderio di essere completamente visibili e la consapevolezza della propria vulnerabilità, De Vicari ci lascia con una domanda sospesa: cosa resta di noi quando il corpo si fa memoria? Cosa rimane di un’esperienza che pur se archiviata nella carne continua a respirare attraverso le sue tracce? La mostra Osservatorio Cieco non si limita a rispondere; piuttosto, ci invita ad abitare questo spazio di incertezza, dove il visibile e l’invisibile si fondono, e dove la luce che rivela è anche quella che dissolve, come un gesto che ferisce e al contempo cura, in un ciclo ininterrotto di perdita e resilienza. In questo paradosso, la mostra di Silvia De Vicari si pone come una riflessione sulla condizione umana, sulla nostra fragilità e resistenza. Un’analisi del corpo che non si risolve mai completamente, ma che persiste, nonostante tutto, come un segno indelebile nel tempo.
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