Oscar Giaconia, alla sua seconda mostra personale da Monitor, presenta “Parasite Soufflé”, recuperando «un immaginario pregresso per utilizzarlo come supporto, ovvero come una superficie su cui sovrascrivere in continuazione». Nella sede romana, rifoderata per l’occasione da una membrana connettiva color salmone, la carta diventa cartilagine, la pelle è plastica ed elastica e mappa – dalle cornici al pavimento – qualunque cosa, le materie si mischiano, l’ibridazione è costante.
Da sempre interessato alla sostanza delle materie che si intrecciano e si intersecano tra di loro, Giaconia ha con questa mostra fatto luce sulla natura del suo lavoro, ovvero «l’osservazione nell’incedere della ricerca della proliferazione di superfici che si incrociano e mutano fra di loro». “Parasite Soufflé” rivela, in termini pittorici e anche installativi, l’attenzione che egli riserva al supporto, che di fatto è qualcosa che non cessa mai di essere qualcosa di altro, di diverso e di potenzialmente trasformabile.
Esiste, tra le superfici, una continuità, che non è immune da rigetti, insurrezioni, errori, fallimenti e anomalie. I cinque lavori pittorici della serie Parasite Soufflé, incorniciati in pelle plasticizzata, sono realizzati con acrilico, ossidi, verderame, emulsione di caseina, coagulante liquido, mercurio cromo, anilina, emulsione plastica, promotore di adesione su carta lubrificata: tutte sostanze tra loro incompatibili, la cui convivenza è forzata ma per assurdo simbolicamente integrabile.
A plasmarne l’epifania è il trattamento, per mano di Giaconia, che usa le anomalie come parte del processo. L’inedita serie è «uno slittamento tettonico di un immaginario precedente che sborda e crolla su quello corrente, o asincronicamente il suo rovescio?», spiega e interroga l’artista.
L’istanza della simbiosi che fonda Parasite Soufflé sottende un’idea di stratificazione in divenire – derivante dall’utilizzo di materiali isolanti, collanti e leganti, che mettono in dialogo i vari passaggi di continuo in perpetuo – che porta ad assumere i diversi cicli pittorici, che nominano le opere (come Sexual Clumsiness, The Grinder, Aye-Aye, Ginnungagap, Colon, Calabiyau, Master-Mother, The Kitbasher, Bhulk, Unimog Painting Dystopia), quali bolle di pensiero visivo che possono entrare in contatto tra loro e creare una schiuma, una forma di contaminazione ulteriore.
Negli altri lavori che definiscono il percorso espositivo Giaconia, con una logica simulacrale, agisce come un parassita: si mimetizza, passa inosservato, è inoculato all’interno di un corpo, non lascia vedere nulla di sé, opera in gran segreto. Pena, l’esclusione. Del trittico pittorico TROLL, per esempio, l’artista trolla e riassembla materiali di scena che assumono incongrue geometrie informi. Saccheti e imballi di plastica, zucche, escrescenze e tentacoli indecidibili lasciano emergere un compost visivo dissepolto in superficie. Poco distante l’opera SEXUAL CLUMSINESS (The raptile Glove) si offre allo sguardo come uno spettro che ritorna. Il suo fascino è dato dall’equivoco: è una testa che viene montata o smontata? È esfoliata o rimappata?
Il gesto di Giaconia crea doppie letture, ambiguità e ambivalenze. C’è sempre un ospite, c’è sempre un ospitato. Non è facilmente deducibile chi sia l’uno e chi sia l’altro. Concludono la mostra due bozzetti prototipo e una mangrovia di zucche, che condividono la speranza assurda di creare chimere, l’idea di attivare l’inanimato attraverso il vivente, alludendo alla possibilità di creare fusione tra oggetto e corpo. NEMAT-PUPPET-FROG, sono un’anteprima di studi che Giaconia sta conducendo al microscopio sui vermi: «la morfologia respingente dei nematodi scompare attraverso il loro smisurato ingrandimento, lasciandomi la sensazione di vederli brulicare affiorando dal marmo». Il titolo insiste sulla tripartizione segmentata come un insetto, di corpi specie e oggetti tassonomicamente incompatibili. Sono incipit per intrusioni di sviluppo plastico in divenire. La mangrovia al centro della sala è invece la capitolazione dell’idea di giocare con differenti scale di grandezza e di utilizzare i modelli come una sorta di progressione incontrollata. È forte, come in tutta la mostra, la presenza del parassita, che ha a che fare con l’idea della variazione, della variante costante. Per certi versi sembra assurdo e contraddittorio ma il parassita è parte stessa di un processo evolutivo.
La questione del parassita va al di là del dato biologico e degli adescamenti che Giaconia ha disseminato all’interno della mostra: il parassita è molto più esteso di quanto si possa pensare all’interno del nostro ragionamento politico, antropologico, sociale, come anche nei rapporti di comportamento. L’approccio parassitario di Oscar Giaconia ci svela l’immagine come forma pretestuosa, un galleggiante che emerge ma sottende un sommerso che è appannaggio delle tecniche, dei processi di accoppiamento tra organico e inorganico, tra biologico e sintetico, cercando di trovare un’assurda simbiosi tra due polarità apparentemente inconciliabili. «L’immagine è l’innesco primitivo di un atto predatorio che si muove al di sotto», dice l’artista.
Come un moderno alchemico Giaconia parte da sostanze che il più delle volte sono scarti di produzione per ottenere qualcosa da riattivare in vitro, in laboratorio. La scelta di usare il parassita come modello vivifica la sua inesauribile attenzione sulla possibile animazione delle sostanze, sulla possibile fusione del vivente e dell’inanimato, come dell’organico e del sintetico. Come un gioco così un’insistenza – parassitaria appunto – sull’idea di contaminare sempre e ulteriormente qualcosa di contaminato.
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