50 anni fa moriva Pablo Picasso (Malaga, 1881- Mougins, 1973), uno dei protagonisti della prodigiosa temperie avanguardistica del primo Novecento e senza dubbio, mediaticamente, il più popolare. Alla sua creazione più geniale, il movimento pittorico che fu denominato Cubismo (un termine – sembrerebbe- a lui non gradito), lo spinse, muovendo da Cezanne, una certa idiosincrasia verso la vibratile visione impressionista, allora in gran voga, che lo portò a escogitare «una nuova maniera pittorica capace di tradurre gli esseri e gli spettacoli naturali nella loro totalità» (la citazione è tratta da un sapiente saggio di Ardengo Soffici che visse a Parigi e fu testimone di quel clima irripetibile). Per celebrare il topico anniversario la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea allestisce nei suoi ampi spazi una mostra di circa 300 opere tra disegni e incisioni provenienti dal Museo Casa Natal Picasso di Malaga che attestano, in un arco di tempo che va dal 1905 al 1972, la faconda loquacità grafica del celebre artista.
La scrittrice Gertrude Stein, che gli fu amica, annota: «Suo padre, in Spagna, era professore di pittura e Picasso scriveva pittura come gli altri bambini scrivevano l’abbiccì. Era nato facendo disegni, non disegni da bambino ma disegni da pittore. I suoi disegni non erano di cose vedute ma di cose espresse, insomma erano parole, per lui; il disegno fu sempre il suo solo modo di parlare, e lui parla moltissimo». Va detto che a una più proficua intellezione della mostra avrebbe forse giovato una illuminazione un poco più generosa, ma i tempi attuali ci chiamano all’austerità, e uno sguardo umbratile su un manipolo di quadri è sacrificio sopportabile.
È però un Picasso minore, quello che ci scorre dinanzi agli occhi, ben distante dagli anni fecondi dell’ispirazione (qualche grafica li precede, la gran parte è successiva), da quella rivoluzionaria visione eccentrica della realtà che, per un decennio, sconvolse il mondo dell’arte e che nel corso del tempo trapassa nell’abile mano dell’onnigrafo mutandosi – metamorficamente – in un’esperta rappresentazione alla maniera cubista.
Ci accorgiamo che è sempre molto complicato scrivere di Picasso, e ci tornano in mente gli ammonimenti più volte espressi dallo storico Antonio Natali, già direttore della Galleria degli Uffizi, in un utile volume titolato Il Museo, che abbiamo recensito anni addietro per exibart: occorre tutelare l’arte sia dalla voracità del mercato finanziario che dall’iperbolicità della propaganda mediatica, un connubio esiziale che ha ridotto alcuni artisti alla stregua di feticci da idolatrare e talune opere a reliquie da venerare.
Parole mordaci ma genuine che ci frullano in testa mentre scriviamo queste righe, se pensiamo che chi leggerà questo articolo non potrà vedere alcuna immagine delle opere esposte in quanto si è ritenuto, invocando la SIAE, di dover far pagare i diritti di riproduzione anche per la pubblicazione di una sola immagine. Come se scrivere su Picasso fosse da considerarsi un gran privilegio e riprodurre qualche quadro a corredo di una recensione equivalesse a indossare un costoso capo griffato. Dispiace davvero vedere un grande artista ridotto al rango di proficua ma banalissima e volgare “gallina dalle uova d’oro”.
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