In occasione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922 – Roma, 2 novembre 1975), le Gallerie Nazionali di Arte Antica, Palazzo Barberini presentano, dal 28 ottobre 2022 al 12 febbraio 2023, la mostra “Pier Paolo Pasolini. TUTTO È SANTO – Il corpo veggente” a cura di Michele Di Monte. La mostra è parte del progetto espositivo “Pier Paolo Pasolini. TUTTO È SANTO“, coordinato e condiviso dalle Gallerie Nazionali di Arte Antica con l’Azienda Speciale Palaexpo di Roma (“Il corpo poetico”) e il MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo (“Il corpo politico”) curato collettivamente da Michele Di Monte, Giulia Ferracci, Giuseppe Garrera, Flaminia Gennari Santori, Hou Hanru, Cesare Pietroiusti, Bartolomeo Pietromarchi, Clara Tosi Pamphili.
La tematica su cui è incentrata l’esposizione verte sul legame indissolubile tra l’universo artistico pasoliniano e la tradizione figurativa antica e il repertorio iconografico ad essa connesso. È indagata la complessa natura di questo rapporto filtrato sempre attraverso un’interpretazione/reinterpretazione critica originale del regista agli occhi del quale l’arte antica offre spunti per istituire nessi con la realtà storica e sociale contemporanea.
L’interesse per la cultura artistica è il portato della formazione universitaria di Pasolini svoltasi a Bologna dove, con febbrile entusiasmo, aveva seguito, tra il 1940 e il 1941 l’inedito approccio metodologico delle lezioni di storia dell’arte di Roberto Longhi sulla pittura di Masolino e Masaccio, in occasioni delle quali il sistema delle sequenze fotografiche, indaganti, in maniera lenticolare, dettagli inesplorati delle opere prese in esame, e il lessico ridondante, seduttivo, barocco del maestro si prospettavano già di per sé come delle proposte reiventanti le stesse opere prese in esame. È su questa base che ha avvio il personalissimo utilizzo del bagaglio culturale storico-artistico da parte di Pasolini.
Il parallelismo istituibile tra la cultura del passato – intesa in senso lato – e la modernità a cui si rivolge sovente l’orizzonte degli interessi di Pier Paolo Pasolini, ha come momento fondante l’attenzione al “sacro” – evocato emblematicamente nella prima parte del titolo “TUTTO È SANTO” – inteso in un’accezione lata che travalica la mera dimensione devozionale, confessionale trovando modo di permeare l’universo artistico pasoliniano attraverso anche una trasposizione provocatoriamente “laica”, talora scandalosa, dei temi cristiani come, tra gli altri, quello della Crocifissione o della Mater dolorosa, come appare nel Fiore delle Mille e una notte (1974) o in Mamma Roma (1962).
La mostra si articola in sei sezioni espositive, ciascuna delle quali reca nell’intitolazione il riferimento a figure del corpo (Il corpo virtuale delle immagini, Il corpo epifanico, Il corpo dello scandalo, Il corpo del cordoglio, Il corpo popolare, Il corpo soggetto) e nelle quali è proposta un’attenta selezione di materiale, costituito da una serie di dipinti e sculture appartenenti alla collezione delle Gallerie Nazionali di Arte Antica, un nucleo di opere provenienti da musei italiani e stranieri e documenti fotografici, audiovisivi e testuali.
Il brillante criterio espositivo rispecchia del tutto efficacemente la tematica enunciata nell’intitolazione della mostra, rendendo visivamente fruibile, nei termini immediati che l’accostamento tra fonti figurative e materiale pasoliniano icasticamente offre, il nesso tra il mondo artistico di Pasolini e il bagaglio culturale a cui attinge e al quale le opere in mostra si connettono, contestualmente dimostrando l’originale e complesso processo rielaborativo messo in atto.
L’intervista al curatore Michele Di Monte consente di cogliere con puntualità importanti aspetti dell’originale e articolato progetto ideativo della mostra.
La dicitura “TUTTO È SANTO” che accomuna il progetto delle tre esposizioni, ispirata alla frase pronunciata dal saggio Chirone nel film Medea (1969), si lega all’ampia accezione che il concetto di sacro assume nell’universo pasoliniano. In che modo nella mostra di Palazzo Barberini è declinato questo aspetto?
M.D.M: In effetti, nella poetica pasoliniana il concetto di sacro ha un ruolo tanto centrale quanto ricco di implicazioni e sfumature semantiche diverse, sebbene correlate. Nella mostra di Palazzo Barberini questa dimensione sacrale è innanzitutto evidente nei continui richiami all’iconografia e alle tematiche religiose, all’immaginario visivo in cui si incarnano quei “duemila anni di Imitatio Christi” che proprio Pasolini ha esplicitamente rivendicato come patrimonio comune della nostra cultura. D’altra parte, il carattere “ierofanico” della realtà – per usare un altro termine amato dallo scrittore, che lo aveva trovato negli scritti di Mircea Eliade – ha pure un’inflessione stilistica e formale. L’insistenza sui primi piani, sulla frontalità, sulla netta contrapposizione tra figure e sfondi, e più in generale un certo modo severo di concepire la composizione, ciò che insomma lo stesso Pasolini chiamava “sacralità tecnica”, si lega certamente all’ispirazione dell’arte e della pittura antiche. Ed è questa ispirazione che abbiamo cercato di ricostruire ed esplorare in una prospettiva ampia e comprensiva.
Pier Paolo Pasolini. TUTTO È SANTO – Il corpo veggente. Il termine “veggente” può essere interpretato anche come un’allusione alla capacità di Pasolini di vedere oltre le tendenze espressive a lui contemporanee ponendosi come un innovatore radicale di un linguaggio letterario, cinematografico e artistico in senso lato?
M.D.M: Il filo tematico che unisce le tre mostre è appunto dedicato al corpo, che noi abbiamo qualificato come “veggente”, per riferirci non solo, come è ovvio, al corpo delle immagini, ma anche allo sguardo attraverso il quale quelle stesse immagini prendono forma o, forse meglio, riprendono forma. Perché le immagini pasoliniane, non solo quelle propriamente visive, sono immagini che ritornano, che sopravvivono, che attraversano – e a volte scompaginano – l’ordine temporale della storia: fanno violenza e resistenza. Non sono immagini concilianti. Sono piuttosto “figure” – nel senso medievale che Pasolini attingeva dagli studi di Erich Auerbach – e dunque pre-figurazioni, anticipazioni, profezie. Sebbene per Pasolini non vi fosse ovviamente teleologia o escatologia. Tuttavia, vedere e rivedere le immagini del passato significa fare esercizio non solo di mera percezione, ma anche di immaginazione e pensiero prospettici, di critica: potremmo dire, appunto, di “veggenza”.
La logica “pittorica” di montaggio delle immagini, che ha attratto il giovane Pasolini durante le lezioni di Roberto Longhi all’Università di Bologna, è in qualche modo evocata e riflessa nel percorso della mostra e nel suo sviluppo attraverso le diverse sezioni?
M.D.M: La mostra si apre precisamente con il motivo dell’incontro con Longhi, proprio perché lo stesso Pasolini – è ben noto – ha poi ricordato tante volte quel momento inaugurale come il suo decisivo battesimo “figurativo”. Ma direi che l’intero percorso dell’esposizione è concepito come una sorta di “montaggio”, che mette insieme continuità e discontinuità, sequenzialità e simultaneità, affinità e contrasti, secondo quella logica delle “attrazioni” di cui parlava Ėjzenštejn. Insomma, abbiamo provato ad articolare un discorso visivo così come lo stesso Pasolini si era sforzato di fare attraverso il medium cinematografico: “per coazione dell’immagine”. Naturalmente, questo “diapason” visivo, per vibrare all’unisono, ha bisogno della collaborazione dello spettatore, della sua immaginazione e della sua disponibilità a non vedere esclusivamente “alla lettera”, come dicevo prima.
Uno dei punti cardine dell’approccio di Pasolini alle sue creazioni cinematografiche è la dichiarata matrice figurativa: «Il mio gusto cinematografico non è di origine cinematografica, ma figurativa. Quello che io ho in testa come campo visivo, sono gli affreschi di Massaccio, di Giotto, che sono i pittori che amo di più, assieme a certi manieristi (ad esempio, il Pontormo)». In che modo l’articolazione della mostra riflette questo punto nodale della sua poetica?
M.D.M: Innanzitutto, e più immediatamente, attraverso il confronto diretto fra i vari materiali. In mostra sono esposti dipinti, sculture, riproduzioni, foto di scena, fotogrammi tratti dai film. Ogni sezione all’interno del percorso, e ogni parete all’interno delle sezioni, è strutturata come una collazione visiva. Nondimeno, il nostro intento non era solo e tanto quello di rifare il censimento delle “citazioni” pasoliniane o l’inventario delle sue fonti figurative, quanto piuttosto far emergere e portare in primo piano coincidenze e convergenze, che sono non meno indicative – e forse persino di più – quando siano involontarie. Per questo in mostra si vedono anche le foto “documentarie” di autori come Franco Pinna e Cecilia Mangini. E sempre per questo il percorso si snoda anche attraverso la presenza di libri – quelli che Pasolini possedeva o aveva letto – che sono, in un certo senso, altrettante “figure” del suo immaginario, di un dialogo a più voci.
Ne La Ricotta (1963) per mettere in scena i dipinti di Pontormo e Rosso Fiorentino, Pasolini si avvale del volume di Giuliano Briganti, La Maniera Italiana (1961). Ma la rappresentazione delle opere artistiche citate nei film di Pasolini non è mai mera riproposizione testuale dei prototipi originali che sono sempre filtrati attraverso una lettura personale che si carica talora anche di toni irriverenti e ironici. Tra le diverse opere in mostra, quali sono quelle maggiormente rappresentative di questa ampiezza di vedute legate al processo reinterpretativo?
M.D.M: Questo è certamente un carattere generale della produzione pasoliniana. Laddove il regista sembra ricorrere a una citazione “ad unguem” – com’è appunto nel caso celebre de La ricotta – in realtà si tratta di un distanziamento critico, dell’obiettivazione di un ulteriore livello di lettura, più o meno metaforico. Abbiamo comunque ripetutamente evidenziato questo aspetto, ad esempio nella sezione dedicata al “corpo popolare”, dove proprio il confronto tra i Mangiatori di ricotta di Vincenzo Campi e le immagini del film pasoliniano lascia intravedere differenze di ordine culturale, ideologico, politico, e misura a un tempo la posizione del regista. Questa problematica autoconsapevolezza critica, per la quale l’opera di Pasolini ha sempre come oggetto, o meta-oggetto, anche la sua stessa opera, è poi tematizzata nell’ultima sezione della mostra.
A fronte delle reiterate citazioni in rapporto alla produzione artistica di Pasolini delle opere dei manieristi, di Caravaggio e di Masaccio, la cultura figurativa medievale ha avuto un peso significativo. In che modo nella mostra è affrontato questo aspetto?
M.D.M: Come accennavo prima, e anche senza scomodare l’ambito della letteratura, il Medioevo rappresenta per Pasolini un universo visivo di fortissima suggestione, sia pure contaminato e poeticamente trasfigurato. E non soltanto sotto un profilo che potremmo dire formalistico. Un solo esempio può essere, credo, eloquente. In mostra abbiamo esposto due poesie “in forma di croce” – una delle quali, quella dedicata a Giovanni XXIII, si intitola peraltro e non a caso Disegno per un portale romanico – che si rifanno alla tradizione altomedievale dei cosiddetti carmina figurata, come quello celebre attribuito a Venanzio Fortunato. È un omaggio “incarnato” a una cultura figurativa in cui forma e contenuto, parola e immagine, simbolo e oggetto, sublime e popolare convivono e si plasmano vicendevolmente. Il medioevo “fantastico” – per citare un altro estimatore come Baltrušaitis – è più moderno di quanto non si pensi.
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