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Pittura italiana oggi: una “mostra doverosa” in Triennale Milano
Mostre
Pittura italiana oggi, in corso alla Triennale di Milano fino all’11 febbraio 2024, si riallaccia idealmente a quella serie di mostre, durate dal 1933 fino al 1964 (come scrive nel bel saggio di Marilia Pederbelli in catalogo), che erano il risultato di un acceso dibattito sul rapporto arte e architettura innescato sulle pagine di Domus da Gio Ponti a partire dalla fine degli anni Venti. Di fatto la V Triennale, che inaugurò l’attuale palazzo nel 1933, vide la collaborazione di Gio Ponti con Mario Sironi e Carlo Alberto Felice a la partecipazione di pittori come Carrà, Cagli, Fini, Funi, Campigli, De Chirico e Severini, impegnati in pitture murali e mosaici pavimentali.
Il riuscito tentativo di articolare lo spazio, lasciando aree per la dimensione installativa delle pitture oppure per creare dimensioni vivibili dei quadri come dei corpi dei visitatori, ad opera dell’architetto Italo Rota, si configura come un’interpretazione del tutto contemporanea di quegli antecedenti, in una dimensione più raccolta, quasi da studio talvolta (come afferma l’architetto).
D’altro canto, come afferma il curatore Damiano Gullì, questa mostra è l’occasione per raccontare una scena della pittura italiana, al fine «di sostenere l’arte nostrana e di innescare un dibattito». Insomma si tratta di una mappatura che comprende centoventi artisti nati dal 1960 agli anni Novanta inoltrati, che risulta al mio parere un tentativo riuscito e doveroso. Anche se ogni volta che incontro qualcuno e si parla della mostra vengono fatti altri nomi che avrebbero benissimo potuto fare parte della kermesse. Ma in Italia c’è una “sindrome della pittura”, «ce ne sono troppi», come afferma Francesco Bonami nel catalogo, e quindi qualcuno, anche di molto valido, è rimasto fuori. Ma per quel che invece è compreso, ritengo che la qualità sia alta, la tassonomia completa per quanto non esaustiva, il tentativo sia lodevole. Non ci sono state mostre riguardanti la pittura italiana in generale almeno dagli anni Ottanta, quando Achille Bonito Oliva con la sua Transavanguardia, Maurizio Calvesi e i suoi “citazionisti”, Renato Barilli e i suoi Nuovi Nuovi, cercavano di individuare tendenze e confluenze stilistiche facendo la fortuna della pittura e dei pittori delle tre scuderie. Da allora la pittura non è scomparsa ovviamente, anzi ha lavorato nell’ombra, ma è mancata soprattutto in Italia, terra di pittori, un’adeguata rassegna. Ci sono alcune mostre, citate anche nel catalogo da Davide Ferri, Infinite Painting a Villa Manin di Codroipo del 2006; Painting codes alla Galleria Comunale di Monfalcone del 2006 e La figurazione inevitabile al Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato nel 2013, a tentare di riempire un buco critico e curatoriale, ma questo è tutto. Quindi ritengo questa mostra doverosa e anche coraggiosa, proprio per il suo espandersi numericamente, tentando di dare ragione di una scena fertile, vivace, di valore e che non gode di un adeguato riconoscimento all’estero. Non c’è molto di pittura italiana infatti nelle kermesse estere, che pur sono state molto più numerose che in Italia, così come per la saggistica estera sulla pittura: gli italiani semplicemente non esistono.
Per chi ami la pittura, questa è una mostra da vedere e rivedere, cercando assonanze, ammirando le sperimentazioni e soprattutto il confronto coraggioso con un mezzo atavico, che per quanto venga periodicamente considerato morto (si potrebbe leggere in filigrana a confronto la bella mostra Stop Painting, della Fondazione Prada di Venezia del 2021), rinasce sempre e oggi – e da qualche anno almeno – più forte che mai. Sarà che l’immagine la fa da padrone attraverso gli schermi di ogni formato e di ogni tipo ormai e la comunicazione che naviga ormai nell’“iconic turn” ha surclassando la parola. Sarà che le macchine hanno preso il posto dell’immagine e dell’immaginazione, gareggiando con noi attraverso l’Intelligenza Artificiale. Allora la pittura si muove a confronto, danzando e operando quasi “a contropelo” direbbe Benjamin, creando la sua storia, fatta di materia, di stili, di storie antiche riguardanti questo mezzo, oggi più che mai, presente. Aprire il capitolo di una storia sociale sulla pittura e parlare di un bene rifugio, per me – ora – sarebbe un di più. Per ora mi godo la pittura e – visti i tempi – il suo carattere eversivo, perché no.
Non viene citata Impresa Pittura, anno 2010, Ciac di Genazzano…un antecedente non proprio da poco.