Superate le due grandi cisterne e i neon all’ingresso di Fondazione Merz, entriamo nella mostra Qualcosa che toglie il peso che mantiene l’assurdità e la leggerezza della favola, che inaugura il suo secondo momento per celebrare il percorso artistico di Mario Merz, a quasi cento anni dalla nascita, e che per l’occasione dell’art week arricchisce il nucleo delle opere esposte. La retrospettiva è un momento onirico di leggerezza che raccoglie gli immaginari di Mario Merz, maestro dell’Arte Povera (appena celebrata nella grande mostra alla Bourse de Commerce di Parigi), in un percorso tra materiali e installazioni che si espandono su tutte le superfici dello spazio. Beatrice Merz racconta il progetto come un equilibro tra il presente e il futuro della Fondazione, nell’intento di ripercorrere gli habitat dell’artista attraverso le sue stesse parole.
Visitare la silenziosa armonia di Qualcosa che toglie il peso rallenta il ritmo frenetico tipico della settimana di Artissima e propone un percorso tra natura e cultura, tra oggettualità e simbologie primordiali esponendo igloo, tavoli, tele e opere su carta dell’artista, illuminate dal sole che attraversa le grandi vetrate originali della ex fabbrica. Mario Merz è stato tra i primi a superare gli spazi delle gallerie d’arte nella città di Torino, permettendo la rigenerazione dell’edifici dell’ex stabilimenti della Lancia, in Borgo San Paolo. Concepita come “magazzino aperto”, la Fondazione mantiene il carattere architettonico industriale funzionalista anni Trenta e accoglie il confronto tra generazioni diverse di artisti dal 2005.
Il titolo riprende un pensiero di Merz: «Vorrei avere la firma di qualcuno che sia stato curato dalla proliferazione/qualcosa che toglie il peso…/penso ai numeri uno dopo l’altro in una dilatazione proliferante…/sono un tappeto volante su cui vivere…/che mantiene l’assurdità e la leggerezza della favola». La giocosa fantasia dell’artista diventa una possibile visione per attraversare le pesantezze dello spirito e le inquietudini dell’attualità globale, quel ritorno all’essenzialità del pensiero che enfatizza tutto il movimento dell’Arte Povera. Il percorso si snoda come una favola tra forme spiraliche e cuneiformi, malleabilità e rigidità delle sostanze organiche come paraffina, pane e cera, e la pesantezza di metallo e pietra, a richiamare la necessità concettuale di Merz di penetrare la mente umano attraverso le regole matematiche della natura, il concetto di “abitare” ripreso dal filosofo francese Claude Lévi-Strauss e le forze originarie degli ecosistemi. La mostra risuona di una malinconia sommessa, evocando una sensazione di perdita, un’energia invisibile che sovrasta spazi e grandezze, «che acquista potenza nello spazio piccolo e si dissipa nello spazio grande», come racconta Merz nel video esposto in ultima sala.
Protagonista nello spazio è senza dubbio l’opera Quattro tavoli in forma di foglie di magnolia del 1985, aggiunta al nucleo espositivo ed esposta per la prima volta in Europa. Pensata da Sperone Westwater e Leo Castelli per la mostra personale di Merz a New York, il tavolo di circa 20 metri si compone di quattro basamenti che sollevano semicerchi ricoperti di cera d’api, simili ad occhi socchiusi o a foglie e pianeti. Piccoli oggetti (pigmenti di colore, foglie, tubi di vetro, un raccoglitore di carta aperto) sono inglobati e catturati nella cera, il cui odore si diffonde nello spazio, come escrescenze suggestive di un’azione compiuta o di un ricordo. Il tavolo rappresenta il massimo simbolo di interazione tra il vivente e l’ambiente, tra il pensiero e il gesto del quotidiano. «Rendere le cose piccole sensazionali, rendere le cose sensazioni. Convivialità, accoglienza e nutrimento»: nelle parole dell’artista, il tavolo è il momento di condivisione per eccellenza che a sua volta riflette la natura ciclica del dare e ricevere, del gioco e della creazione. Concepito come un «frammento di terra sollevato», la struttura crea un paesaggio insieme sconosciuto e familiare, distante e vicino, attraversato da figure essenziali e archetipiche che annullano il confine tra materiale vivente e non vivente. Camminando intorno all’opera, diventiamo parte del meditare lento del laboratorio dell’artista, di un gioco d’infanzia e vecchiaia che diventa memoria. Alle pareti, il progetto espositivo si ampia con la presenza di un’imponente tela, lunga di oltre 10 metri, dal titolo evocativo Geco in casa (1983), le cui forme, per occhio attento, si legano agli oggetti intrappolati nella cera d’api. Altra opera aggiunta è L’horizont de lumière traverse notre vertical du jour del 1995, un delicato incastro di vasi riempiti di vino e miele e vetri geometrici, uniti da un neon. L’opera gioca con i processi di fermentazione delle due sostanze, ricche di nutrimento, ad evocare l’energia trasformativa delle cose e la sinergia tra corpo e paesaggio.
Esposte le Igloo, «i cerchi intorno ai quali è possibile lavorare e inventare», una dichiarazione estetica e socio-politica figlia degli anni 70, afferma Mario Merz in una conversazione con il curatore Harald Szeemann ripresa nel 1985 a Zurigo. Le forme sferiche imponenti degli igloo, simboli archetipici di Merz, sono aperte, a evidenziare la sinergia che esiste tra individuale e collettivo, simboli di rifugio primordiale e dell’idea di protezione. Il nucleo espositivo richiama il concetto di “casa come microcosmo” di Lévi-Strauss, la casa non solo come semplice luogo fisico ma come specchio delle gerarchie sociali, dei ruoli familiari e dei sistemi di valori. In mostra, l’Igloo Senza Titolo (foglie d’oro) del 1997, che torna alla Fondazione dopo circa vent’anni, la rete metallica curvata dell’l’Igloo del pane del 1989 e i riflessi delle pietre rosa provenienti da una cava argentina nella più recente Senza titolo del 2002. A occupare le pareti alte più di tre metri, tessuti e carte con gesti di matita, pastelli e disegni di animali in movimento, che si arrampicano sui muri a simboleggiare il selvaggio, lo spirituale e il metamorfico, e che esemplificano il concetto di Merz di “abitare lo spazio” piuttosto che “fare solo una mostra”. Se le opere acquistano terreno espandendo la superficie, così la loro metaforizzazione passa attraverso lo studio di numeri matematici, i modelli e leggi naturali. Di Merz viene ricreato l’habitat, l’invasione tra opera e ambiente, in cui le forme concave e convesse, pesanti e leggere si succedono e intersecano.
A chiudere il cerchio espositivo, verrà presentato Mario Merz. Igloo, primo volume del catalogo dedicato all’artista, introdotto da un testo a firma di Beatrice Merz, e sarà proiettato il video-documentario Che fare? / MARIO MERZ di Roberto Cuzzillo, con una selezione di interviste d’epoca.
Creare, per Merz, è un doppio gioco di responsabilità, una lettura interpretativa condivisa tra chi guarda e chi genera. Visitare Qualcosa che toglie il peso è attraversare un immaginario onirico nel cui silenzio ogni forma è parte del gioco ciclico di un tempo in perpetua trasformazione. Il percorso attraversa le forme e la materia riuscendo a «mantenere l’assurdità e la leggerezza della favola».
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