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Quando museo e collezionista si alleano: la Collezione Enea Righi in mostra al Museion di Bolzano
Mostre
di Erica Baglio
La mostra, a cura di Bart van der Heide, Frida Carazzato, Brita Köhler e Leonie Radline e realizzata in collaborazione con il collezionista Lorenzo Paini, trova una cornice assolutamente naturale nell’istituzione del Museion. Il rapporto di fiducia che negli anni si è sviluppato e rafforzato tra Museion e Enea Righi, già co-direttore di Arte Fiera a Bologna, di cui alcune opere concesse con prestito a lungo termine, sono state fondamentali per la definizione dell’identità stessa dell’istituzione, oltre che per plasmare i temi di ricerca e rafforzare il profilo internazionale, viene ribadito e celebrato in questa occasione.
È un viaggio che Museion e collezionista hanno intrapreso con naturalezza, come afferma anche il direttore del museo Bart van der Heide, che a riguardo delinea i tre fattori che hanno reso questo legame assolutamente innato. Innanzitutto, condiviso è l’impegno nei confronti del pubblico. Quello tra istituzioni pubbliche e collezionisti privati è una collaborazione che può funzionare, come dimostra perfettamente non solo AMONG THE INVISIBLE JOINS, ma anche la storia pluriennale che la Collezione Enea Righi ha con il museo. In secondo luogo, la figura umana si trova al centro di una ricerca che premette di esplorare questa tematica sia nelle sue declinazioni intime che per quanto riguarda la relazione con l’altro, con il fuori da sé. Infine, fondamentale è l’impegno nei confronti dei giovani artisti, l’attenzione che viene rivolta al loro percorso formativo e artistico, nonché la possibilità di creare nuova arte. Anche questo è un legame, quindi, che è stato reso possibile dalla condivisione di poetica e di valori e che ha reso l’allestimento della mostra, che ha toccato e coinvolto l’intero team di Museion, incredibilmente semplice e naturale.
Le opere in mostra, più di 150 e disposte sui quattro piano dell’edificio, sono realizzate con materiali e mezzi diversi. Dalla scultura ai video, dai dipinti ai libri d’artista, il percorso è un dialogo intergenerazionale e intermediale attraversato da un filo rosso a cui le opere, nella loro assoluta diversità, riescono ad attenersi in maniera logica e condivisa e che accompagnano il visitatore lungo un viaggio che riscopre al centro l’essere umano, la nostra esistenza e la relazione con quanto ci circonda. Dai temi politici e globali alle grandi domande sull’identità, su quella linea sottile che divide il pubblico e il privato, sulla tensione che esiste tra ciò che si trova al centro e ciò che è spinto ai margini, ma soprattutto su chi definisce questi ruoli. «Sono queste istituzioni che esistono nella nostra società, al di fuori di noi, ma anche dentro di noi – continua il direttore – e definiscono le nostre relazioni e i nostri bias, cosa scegliamo di ricordare e cosa scegliamo di dimenticare». Il titolo della mostra, AMONG THE INVISIBLE JOINS, è una frase di Virginia Woolf, che si è interrogata sulle presenze e sulle assenze, così come sui ricordi difficili da comprendere. Quella che viene indagata è quindi quella linea sottile tra il ricordare e il dimenticare, tra la scelta di aprire o chiudere delle porte nel cammino della riscoperta di sé. Tracce di memoria ereditate dalla rete dagli scambi commerciali e dal colonialismo, oltre che dai movimenti dei popoli, così come le conseguenze che ha comportato, sono indagati al primo piano, dove il visitatore si approccia per la prima volta a filoni tematici che verranno affrontati in maniera più puntuale nei piani superiori. Qui Franz Erhard Walther è in mostra con Halbkreis III Skulptural – innen (1975), attivata dalla partecipazione del visitatore stesso, che è invitato a percorrere il semicerchio. Sono la solitudine dell’uomo, l’instabilità e le paure i temi di questa opera. Il video-ritratto Nevermind (screentest 1) (2020) di Atiéna R. Kilfa ci mostra lo sguardo delle nuove generazioni e la scelta di tatuarsi il volto come segno di disagio nei confronti delle generazioni precedenti e di ciò che hanno lasciato in eredità. Il rimosso è il grande protagonista di Cotton Under My Feet di Walid Raad, che cancella la presenza delle Torri Gemelle in immagini dell’attentato dell’11 settembre 2001, lasciando solo ciò che rimane, quindi il cielo, la cenere e la polvere.
Il canto di Amazing Grace, proveniente dall’installazione video Billy Sings Amazing Grace (2013) di Theaster Gates, invade il secondo piano del museo, in cui il visitatore avanza tra macro e micro storia. Torna qui Walid Raad, in questo caso invitandoci ad osservare la storia vissuta attraverso l’interpretazione ingenua e spaventata dei propri occhi da bambino. Una semplice bugia per proteggere l’infanzia del figlio, far credere che il rumore dei bombardamenti fossero in realtà fuochi d’artificio, è il soggetto di questa narrazione alterata dei terrori della guerra. Su questo piano una sala è dedicata ai libri d’artista e alle indagini e sperimentazioni dei protagonisti del Novecento riguardo i concetti dell’esistenza, come è il caso dell’ossessione di Alighiero Boetti – grande protagonista dell’esposizione – nei confronti del tempo, qui in mostra con il curioso Orologio Annuale. Il terzo piano invita a un rapporto più intimo tra pubblico e opere. Le grandi domande a cui introducono queste sale, come la consapevolezza del rimosso, le tacite norme della vita pubblica e la marginalizzazione, iniziano qui da un momento fondamentale della storia dell’arte, come la natura morta di Giorgio Morandi. Da qui si apre l’indagine sulla presenza e sull’assenza del corpo, su quanto il corpo possa intervenire nel dare un significato o meno a determinate narrazioni. Nelle sale sono esposte fotografie che nel corso della storia hanno accompagnato la società nella riscoperta di sé stessi e nella denuncia degli altri – in mostra sono presenti anche Florence Henri, con le sue foto allo specchio del periodo Bauhaus, Nan Goldin, Robert Mapplethorpe e Lisetta Carmi, con il suo reportage I Travestiti –, oltre che riflessi di specchi e acqua, porte e finestre decostruite o che non si aprono e non portano a niente, come quella di Jef Geys su cui sono scritti gli ideali della Rivoluzione Francese. Sono questi degli spunti offerti al visitatore per interrogarsi sul contesto in cui viviamo e sulla narrazione di essa che scegliamo e plasmiamo sulle memorie e sul rimosso.
La mostra si conclude al quarto piano con un’opera che fa da regina, La strada di sotto di Massimo Bartolini. L’installazione, composta da luminarie urbane originali, la cui luce pulsa per tutta la sala, si trova al centro di quella che è una vera e propria città metafisica, concepita dal collettivo Campomarzio di Trento, che ha curato il design espositivo della mostra. Il piano è abitato da sculture che declinano l’interpretazione dell’uomo secondo la visione di diversi artisti e diversi materiali. L’illuminazione della sala non è casuale, ma studiata proprio per rendere omaggio all’installazione centrale e per far sì che il pubblico scultoreo e immoto proietti la propria ombra sul pavimento. Infine, una risata malefica, quella di Gino De Dominicis che accompagna la sua opera D’io (1971) conclude quasi come una beffa questo viaggio attraverso le giunture invisibili tra corpo e spirito e rompe l’eternità di questa città dechirichiana.
Concluso il giro nelle sale di Museion, il pubblico è invitato a proseguire la propria visita presso il Piccolo Museion – Cubo Garutti, dove sono ospitate due sculture in vetro, He (2007) e She (2007) di Pascale Marthine Tayou, anch’esse poste in continuità con i temi di ricerca affrontati nella sede principale.