Con Giuseppe Lo Cascio e Lorenzo Montinaro, Quasi niente equivale a un’occasione per interfacciarsi con due linguaggi maturati al di fuori del contesto artistico della Capitale, rispettivamente di orbita veneziana e milanese. Si tratta di due linee di ricerca sì fresche ma indubbiamente riconoscibili, che, a dispetto di ciò, esternano il riverbero di alcune importanti lezioni della storia dell’arte del secondo Novecento. Tra dialoghi e soliloqui, i lavori articolano un dettato espositivo ben calibrato nella punteggiatura e negli accostamenti, che abita in maniera consona lo spazio – visibilmente caratterizzato – delle sale di Contemporary Cluster a Palazzo Brancaccio.
Così impostata, l’esposizione riesce nel compito non semplice di offrire un confronto con le opere ora individuale e ora corale, quindi lasciando emergere tanto le singole specificità quanto le affinità che intercorrono tra i due registri espressivi, senza azzerare pretestuosamente le soggettività.
Allora, rispettando le proprietà di ciascun alfabeto, la bipersonale trova un primo terreno comune di tipo tecnico, corrispondente – come enunciato nel testo – a «un’attitudine rigorosa nei confronti della ricerca sui materiali e la loro trasformazione, prelevandoli dalla realtà per poi ripensarli attraverso una studiata progettualità». Tale predisposizione, per ambedue, si esplicita nella tendenza a lavorare con l’oggetto di ambito quotidiano, liberato dai vincoli della funzione e risolto, da ognuno, assecondando i toni del proprio regime stilistico. Ciò nonostante, nelle due pratiche sussiste unanimemente la capacità di veicolare un senso d’assenza. Quest’ultima prerogativa, in Lo Cascio, è dovuta non solo alla tipologia degli espedienti impiegati – cartelle vuote, tamburi di serrature – ma anche agli intervalli vuoti concretamente presenti nella costituzione delle sue sculture e delle sue installazioni.
Dall’altra parte, in Montinaro, è l’atto della rimozione esercitato sui marmi a definire la medesima percezione di mancanza. Invero – scrive Lorenzo Madaro – «quello che ci viene palesato è lo spazio, tra corpo e assenza, della traccia inafferrabile del tempo». Con questa allusione all’impermanenza, dunque, diviene comprensibile cogliere pure il secondo territorio condiviso dai due autori, che è di carattere tematico e coincide con un’elaborazione di sintesi rivolta alle categorie della memoria e della storia, comunicando, più in controluce, la difficoltà umana nel razionalizzare gli effetti del decorrere del tempo.
È interessante, in questo frangente, notare come i contenuti appena menzionati vengano declinati secondo metodi diversi, dall’uno all’altro. Difatti, la grammatica di Lo Cascio manifesta un’indole dalla matrice velatamente analitica, riscontrabile nella regolarità degli apparati visivi, spesso dalla composizione modulare, che strutturano le sue sculture e le sue installazioni. Esse, tuttavia, dovutamente al modo tramite cui lui ne qualifica e formalizza i valori oggettivi non risultano mai eccessivamente rigide, inespressive o pesanti, pure laddove sono realizzate su scala ambientale.
L’operato di Montinaro dimostra sensibilità verso il potere dell’icona, che, nella sua prassi, è oggetto di appropriazione, decostruzione e riformulazione, arricchendosi di attributi alle volte più volitivi mentre in altre più evanescenti. Parzialità lapidee, dismesse e rilavorate, si alternano con composizioni di elementi dal lessico simbolico ed evocativo, che affrontano il genere dell’immagine insieme alla rispettiva reificazione, nel suo essere depositaria sia di richiami emotivi che di concrezioni culturali.
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