Una data, 5 aprile 1972. Che, per presa di posizione, tra queste righe non sarà mai indicata come simbolica e significativa per il movimento LGBT+, perché lo è per il genere umano intero. Senza categorie.
Col sostegno del Consiglio d’Europa e l’organizzazione di Agedo e Coordinamento Liguria Rainbow, la mostra 5 aprile 1972 «È un omaggio, non ha la pretesa di una ricostruzione storica degli eventi». A precisarlo è Anna Daneri, curatrice del progetto (aperto al PRIMO PIANO di Palazzo Grillo fino al 10 luglio) assieme a Carlo Antonelli, Marco Fiorello e Francesco Urbano Ragazzi.
Un omaggio. Prima di tutto indirizzato a chi non c’era. A chi non ne sa nulla. A chi magari è entrato per vie traverse in quella che è al contempo narrazione di una giornata e di una “storia infinita”. Un numero illimitato di persone, cui i curatori danno la possibilità d’intervenire con un ruolo partecipativo, condividendo la propria testimonianza. Opportunità mai troppo scontata, anche per una mostra del Terzo Millennio.
E un omaggio, ovviamente, a chi parecchi lustri or sono si trovava al Casinò di Sanremo. Non era lì per cantare quelle che già ai tempi stavano abbandonando il ruolo di canzonette, ma ci teneva a far sentire la propria voce. Per quello che non era tanto un atto di protesta, quanto di denuncia, verso un atteggiamento non rispondente alla realtà dei fatti. Nemmeno ghettizzante (quello piuttosto arriverà nel decennio successivo, con la piaga dell’AIDS), ma annichilente nei confronti della persona. E, in una società che ragionava (e ragiona ancora?) per fazioni, della persona omosessuale nello specifico.
Solo “perché Sanremo è Sanremo”, sblocchiamo una chiosa: era il 1996, quindi ben 24 anni dopo quel 5 aprile. Federico Salvatore partecipava al Festival col pezzo Sulla porta, trattando il tema dell’omosessualità in maniera molto schietta. Bene, il pubblico generalista veniva introdotto a un certo tipo di narrazione emotiva. Peccato solo che la parola “omosessuale” costituisse ancora un tabù in quel contesto di amore a senso unico. Presente nel testo, venne tolta e sostituita. Una perla del dire indirettamente. Del lasciare intendere, esponendosi in maniera controllata. Leggenda narra Pippo Baudo, presentatore e direttore artistico, come artefice. Di chiunque sia stata la decisione, sottolineiamo che era il 1996. Nella televisione pubblica 26 anni fa eravamo messi (male) così.
I fatti ricordano che quel giorno a Sanremo, in un Congresso di Sessuologia, alcuni psichiatri s’apprestavano a discutere dell’omosessualità, indicandola come malattia patologica. Gli attivisti del movimento FUORI – Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano – fecero il loro intervento. Di straforo ovviamente, alterando la tranquilla normalità di un pensiero anormale e alterato di suo.
Storiograficamente, la mostra individua quel contesto attraverso materiali d’archivio. Tra questi è interessante dedicarsi ai circa 10 minuti di contributo video, proveniente dalle teche Rai (ma pensa un po’), realizzato pochi mesi dopo gli accadimenti di Sanremo. La scelta di simulare il palco del congresso per la sua proiezione risponde a una scelta evidente in questa mostra: abbinare parallelamente il piano storico a quello puramente emotivo. È come se si volesse “pennellare” quell’atmosfera, riproducendo un’aura tempo-spaziale; anche con l’ausilio delle gigantografie bianco e nero di Mario Mieli, all’esterno del Casinò di Sanremo. O della scrittrice Françoise d’Eaubonne affacciata sul palco del congresso, che a guardarla col naso in su è come se cercasse ancora il suo pubblico. Intanto, sotto il palco, lunghe tavolate ordinatamente rispolverano articoli, incrociando in modo diacronico quel momento specifico agli anni a venire.
Da Sanremo a Genova. Sono circa 150 i chilometri che separano la città del 5 aprile 1972 inteso come data, da quella del 5 aprile 1972 inteso come mostra. Genova è oggetto di un indovinato excursus documentario, ricco di input che qui si è scelto di focalizzare molto arbitrariamente.
È una città impegnata, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, in incontri di sensibilizzazione/conoscenza sul tema dell’omosessualità, ideati dall’Associazione Il Tram dei Devianti. E una città osservata dal borghesissimo belvedere di Mura delle Cappuccine, coi sottostanti Giardini Francesco Coco: lì dove gli “incontri”, quelli virgolettati, hanno dato vita a un luogo di battuage cittadino. L’area negli anni s’è trascinata in una boutade, come riportato da una selezione di articoli in cui si raccontano di retate delle forze dell’ordine, miste a proteste dei cittadini.
Un volantino però, con intestazione cubitale “occhio al caramba”, racconta più di tutto l’aria che si respirava in un tempo non troppo lontano. Tempo in cui la virtualità non aveva ancora impatto sui rapporti interpersonali. A farne le spese gli abitanti della zona. Sta di fatto che quelle ascrivibili a sacrosante proteste della cittadinanza (incarogniti dal vederne in alcuni casi di cotte e di crude, con fiumi d’inchiostro spesi dalla stampa nella cronaca di eventi a luci rosse o solo rosate) virarono verso una guerriglia repressiva oggi impraticabile. Era infatti il tempo degli agenti in borghese, a caccia di denunce per “atti osceni in luogo pubblico e/o adescamento”, come si legge dal volantino. Che in calce riportava un bel “usa il preservativo”, sempre utile da ricordare.
Nella sala a fianco un altro valido apparato: la carrellata di prime pagine del mensile “di liberazione sessuale” FUORI!, organo stampa dell’omonimo movimento. Nei titoli i temi caldi che scioglievano alcuni tabù anni ’70. Tra i tanti, utilizziamo anche qui tutta l’arbitrarietà che ci compete per estrapolarne uno solo: “L’intervista: Sono un operaio omosessuale”. Preistoria, o dopo 50 anni potrebbe fare ancora notizia?
Oppure la faccenda è ancora differente: la difficoltà di un coming out è puro specchio dei tempi, colpendo aree professionali/sociali in base al periodo storico. Una delle ultime dichiarazioni rilasciate a Vanity Fair dall’ex Juventus, e dichiaratamente omosessuale, Patrice Evra – «In ogni squadra di calcio ci sono almeno due gay, ma se lo dici sei finito» – sono solo un’ulteriore prova che l’operaio di ieri ha lasciato il posto al calciatore di oggi.
5 aprile 1972 non può prescindere dai protagonisti. Da chi quel giorno c’era, come gli attivisti Angelo Pezzana e Riccardo Rosso, rispettivamente iniziatore della rivista FUORI! e colui che ha contribuito a concepirla così come la si vede, al centro di un’intervista audio che include tutte le sfumature perse nei documenti scritti.
E da Corrado Levi, firma del FUORI!, artista e un sacco di altre cose utili a definire un personaggio che esula da ogni genere di definizione. In mostra tre diversi lavori, tutti su carta perché «La carta rimanda alla fragilità del corpo» spiega Daneri.
Sillogismo: se la cartina degli amori di Frankenstein, poesia geografica è già di suo un lavoro che non lascia spazio all’immaginazione; se le litografie di Peso piuma imprimono una schiettezza di gesto senza filtri, la conclusione non può che essere Quasi, autoamori di Johnny. Un progetto installativo dominato da carta, penna e Levi. Una scrittura che nel corsivo mette tutta l’autenticità di ciò che l’artista vuole narrare, su ogni foglio con data e orario; A4 appesi in sequenza, come fotogrammi in cui la volatilità del tratto grafico sa di scrittura automatica, dell’eccitazione compressa all’interno del foglio stesso. Della masturbazione come gesto più che performativo, naturale e liberatorio.
Dopo tutto quello che si è visto, letto e ascoltato, quest’installazione è un mettersi in gioco – tanto per Levi, quanto per i curatori – con la parte più diretta di un sé espresso senza freni. Carta, penna e schizzi di sperma.
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